E' proprio vero: quando non c'è più dialogo attraverso le parole l'unica cosa che unisce i popoli, le storie delle singole nazioni o le società è solo la musica. Suoni e partiture di suoni, compiono un miracolo quotidiano di cui spesso noi “viandanti” della terra non ci soffermiamo abbastanza a valutare e comprendere il significato.
L'esperienza del pomeriggio di sabato 22 Agosto, presso la stupefacente chiesa di San Gregorio Maggiore di Spoleto ne è la testimonianza diretta e pratica. Le possenti mura medievali, le maestose colonne di un gioiello spesso sottovalutato del patrimonio sacro spoletino (1100-1200), hanno visto l'esibizione in un concerto di Koto, dell'Ensemble Sosui Kai di Kanagawa. Il Koto è uno strumento musicale cordofono appartenente alla famiglia della cetra introdotto dalla Cina in Giappone durante il periodo Nara.
All'inizio il Koto venne usato per lungo tempo solamente presso la corte imperiale. Questo stato di cose cambiò nel XVII secolo soprattutto ad opera di Yatsuhashi Kengyô (1614-1684) che sì applicò a rendere il Koto maggiormente accessibile presso la popolazione. Ideò l'accordatura hirajoshi e creò composizioni divenute dei classici della letteratura per questo strumento come Rokudan and Midare.
Una voce della tradizione giapponese tutta dedicata al vivere quotidiano o alle epiche storie dei regnanti o dei guerrieri.
Nelle storie dei popoli simili “menestrelli” si sono succeduti in tutte le epoche, ma quello che rende l'esperienza Giapponese unica nel suo genere è la rarefazione del suono nella sua asciutta partitura, quasi si volesse replicare una voce della natura o uno di quei modi di pregare salmodiando molto simili ad un mantra o ad un canto Gregoriano. Suoni che nobilitano più delle stesse parole che non raggiungono spesso vette così alte di comunicazione.
La luna sulle rovine-Kojoo no Tsuki- i fiori di ciliegio-Sakura_Sakura- raccontati da una partitura di Koto, o il lamento di un orso disperso sulle montagne-Shika No Toone- eseguito con il flauto di Bamboo Shakuhachi, rendono perfettamente il senso di questo esercizio stilistico. Alcuni arrangiamenti, come il ripetere un solo tipo di pizzicato sulle corde in maniera ripetitiva, sembrano essere molto simili a quella che in letteratura si definisce onomatopea.
Addirittura nel caso del brano eseguito dal solo Shakuhachi, alcune tecniche di esecuzione, “soffiate” hanno delle assonanze impressionanti alle tecniche vocali dell'indimenticato Demetrio Stratos nell'esecuzione del capolavoro Flautofonie.
Decisamente interessante l'ipotesi di lavoro che vede uniti gli elementi dell'esecuzione del concerto, l'effetto sul pubblico ed il luogo che ne è stato testimone. Una chiesa medievale come San Gregorio Maggiore ha reso evidente come un luogo è santificato da coloro che vi abitano o vi compiono riti. Nessun muro è tale solo per via di una definizione o di un nome. E a San Gregorio l'effetto era proprio quello dove un canto Gregoriano, un concerto d'organo o di Koto non avrebbe potuto cambiare nulla della forza del suono e del silenzio di chi ascolta. Il compito delle antiche cattedrali dunque rispettato appieno.
Apprezzabile e da incoraggiare lo sforzo di chi ha voluto portare questa esperienza a Spoleto , che sempre più si dimostra laboratorio di comunicazione e di frontiera del conosciuto. Un plauso quindi all'Ambasciata del Giappone e alla Fondazione Italia- Giappone, presieduta dall'Ambasciatore Umberto Vattani, molto legato a Spoleto, la Selene Viaggi e Turismo, Official Supporter della Fondazione, lo Staff dell'Hotel Cavaliere di Spoleto ed i suoi proprietari, la Famiglia Gori, Il Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto, la Diocesi di Spoleto e Don Oreste Baraffa, ed anche se al photofinish, l'Amministrazione Comunale di Spoleto per il patrocinio.
(Carvan)
(foto gentilmente concesse da Tae Kokawa)
(modificato h 14,35 del 24-08-2009)