Può un duello “fino all’ultimo sangue” tenere in vita e per decenni i suoi protagonisti? La risposta a quello che solo all’apparenza sembra un paradosso, la si trova ne “I duellanti”, romanzo di Joseph Conrad portato in scena al Festival dei 2 Mondi per la regia di Alessio Boni e Francesco Meoni, straordinari nel ripercorrere, tra i solo quattro lati di un palcoscenico, l’epopea napoleonica rimasta impressa ai più con il kolossal di Ridley Scott. Un’epoca segnata dal cambio di strategie militari, dall’ingresso sui campi di battaglia di nuove armi da fuoco a ripetizione, quelle che molto più in là porteranno eserciti e soldati a modificare anche quel “codice d’onore” che ha sempre contraddistinto più l’uomo che la divisa. O forse il contrario, chissà. E’ in questo contesto che si affrontano i due ufficiali, appartenenti allo stesso squadrone ussaro, Armand D’Hubert (Alessio Boni) e Gabriel Florian Feraud (Marcello Prayer), il primo combattuto tra le ambizioni della propria carriera e la propria coscienza, il secondo dai modi meno aristocratici, spesso provocatori, dove l’istinto ha sempre la meglio sulla ragione. Anche su quei futili motivi che consentiranno ad entrambi di rimanere sempre in duello, a cercarlo ora con la spada, ora con la pistola, per sfidare lo specchio della propria anima. Come dovrebbe ogni uomo alla mattina, prima di farsi la barba, l’unico momento in cui si è soli davanti allo specchio: guardarsi, riflettere se le proprie azioni sono state giuste o sbagliate e decidere quale merito o torto dovrà ammettere a sé stesso. Conrad trasferisce in questa opera non solo le esperienze della propria vita militare ma anche la continua ricerca psicologica sull’uomo. Così, in fondo, i duellanti sono solo uno, perché non c’è peggior avversario di noi stessi. Ma di questo abbiamo a volte bisogno per sopravvivere.
D’Hubert e Feraud, valorosi combattenti, non sanno invece condannarsi né assolversi. Restando così, a modo loro, solo soldati, al punto da non sapere gestire neanche le emozioni di un amore. Straordinaria l’interpretazione dei due ufficiali, anche nei vari combattimenti all’arma bianca, fin troppo reali grazie alle lezioni di un maestro d’arme d’eccezione, il pluricampione Renzo Musumeci Greco cui si è affidata la produzione per rendere ancor più realistica la trama. Brava Federica Vecchio che, suonando il violoncello, incarna l’affascinante Adèle, madame de Lione e fidanzata di d’Hubert. Infaticabile Francesco Meoni chiamato a rivestire ben 5 ruoli: il colonnello Marchand, lo zio di Adèle, il potente Fouchè, un soldato e un giadiniere.
Bene la regia, che all’ingresso e all’uscita dalla scena dei protagonisti (chiamati tutti a rivestire un doppio ruolo) ha preferito ‘giocare’ con continue assolvenze e dissolvenze, portando il pubblico a godere più di una visione cinematografica che teatrale. Così gli scontri, anche a cavallo, il nobile palazzo dove Adèle si concede a d’Hubert, le distese russe che vedono Napoleone ora vittorioso, ora amaramente sconfitto sembrano ambientate in un luogo senza futuro, più simile “a uno scantinato di New York”. Dove spiccano però preziosi dettagli come i costumi dell’epoca (Francesco Esposito), i vessilli ora dell’Impero ora della restaurata monarchia, le musiche di Luca D’Alberto e le luci di Giuseppe Filipponio. Ad impreziosire la visionaria scenografia di Massimo Troncanetti. Spettacolo da non perdere, tra i migliori di questa 58ma rassegna, con le ultime due repliche domani, domenica 12, alle 12 e alle 17,40
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