CURCIO E "I DANNATI DEL LAVORO". A SPOLETO PRESENTATO IL "VIAGGIO" DI CHI LASCIA IL PROPRIO PAESE D'ORIGINE (Guarda chi c'era) - Tuttoggi.info

CURCIO E “I DANNATI DEL LAVORO”. A SPOLETO PRESENTATO IL “VIAGGIO” DI CHI LASCIA IL PROPRIO PAESE D'ORIGINE (Guarda chi c'era)

Redazione

CURCIO E “I DANNATI DEL LAVORO”. A SPOLETO PRESENTATO IL “VIAGGIO” DI CHI LASCIA IL PROPRIO PAESE D'ORIGINE (Guarda chi c'era)

Sab, 19/07/2008 - 13:10

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di Carlo Vantaggioli

Alla Festa dei Comunisti di Spoleto, ieri pomeriggio, c'era un aria silenziosa, decisamente carica di attesa. Renato Curcio è un uomo piccolo di statura, vestito di scuro, in modo semplice, con i capelli bianchi e corti e con una sua eleganza discreta nei modi che ne indica un certo modo di relazionarsi. Una sorta di understatement che non sai se derivi dalla sua cultura, dalla sua vita, dal timore di apparire o dal fatto che lavora a Milano. C'erano molte persone a sentire la presentazione del suo libro appena scritto “I Dannati del lavoro”, analisi attuale e lucida sulla situazione dei Migranti in rapporto alla Globalizzazione e ad un sempre meno nascosto “razzismo” culturale. Un testo che mutua la definizione di Frantz Fanon “dannati della terra” con la più attuale “dannati del lavoro”. Anche un analisi impietosa del fallimento delle vie dell'immigrazione regolare che inducono a passare rapidamente a quella irregolare.

Decisamente importante il primo punto, su cui si identifica il contesto della migrazione, ovvero ” il viaggio”. Chiunque lasci il suo paese di origine per cercare lavoro altrove, per prima cosa compie un viaggio e opera un distacco. Distacco dagli affetti, dalle tradizioni culturali, economiche, religiose etc. Un'esistenza straniera dunque, figlia di una “perdita”.

Oggi Renato Curcio, scarcerato nel 1998, sposato e con una figlia, è un uomo che si occupa di editoria e di analisi sociologiche, è un ricercatore che usa la parola come strumento per l'analisi di alcuni fenomeni sociali e che con questa intende fornire strumenti interpretativi a quante più persone vengano a contatto con le sue ricerche.

Davvero strano non vedere tra le gente di ieri “un addetto ai lavori” di questa città. Volutamente si è parlato di attesa e non di curiosità all'inizio, perché il semplice partecipare ad un incontro quasi mai significa legittimare tout court, ma ascoltare semmai e farsi un opinione, confrontarsi.

Chi scrive ha vissuto in pieno per età anagrafica quel periodo in cui le parole di Renato Curcio erano “pietre”, e gli atti che ne derivavano ferivano la società in maniera lacerante. Per alcuni era il bene, per altri il male assoluto: tralasciamo le relative percentuali, chi ha vinto e chi ha perso lo ha scritto la storia.

Oggi confrontarsi con quest'uomo può senz'altro servire a non dimenticare e a capire come la vita a volte ci cambia. Quest'uomo, Curcio, oggi non è un gigante, non è un diverso, non è un “mito”: è solamente un'uomo.

Eccolo muoversi, ora dietro al banco dei libri, ora mentre stringe una mano di qualche “compagno” intimorito, ora, sorridente, mentre si siede tra un gruppetto a parlare in attesa di iniziare la conferenza.

E' in questo contesto di apparente normalità che ci si imbatte in due frasi dal sapore “copernicano” che Curcio ha scritto nella Introduzione al libro. ” …poiché le parole sono pesanti anche se spesso vengono usate alla leggera…”, o, parlando del metodo di ricerca usato, “nella traduzione…insieme al tono, alle pause, al modo che ciascuno ha di raccontare, ai ritmi narrativi, alle lacrime, vanno smarriti anche quei significati sottili che la parola scritta difficilmente registra a meno che non sappia aprirsi, più di quanto io sappia fare, alla poesia”.

Non c'è dubbio che Renato Curcio abbia un conto aperto con la “parola” e che ne cerchi ancora la virtù attraverso una vita intera.


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