Posterna è un mostro, così la Cassazione / Trema l'Umbria / Torna incubo demolizione - Tuttoggi.info

Posterna è un mostro, così la Cassazione / Trema l'Umbria / Torna incubo demolizione

Redazione

Posterna è un mostro, così la Cassazione / Trema l'Umbria / Torna incubo demolizione

Dom, 09/02/2014 - 23:45

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Immaginate un puzzle di 10 tesserine che ritrae i due edifici della Posterna di Spoleto, il cosiddetto ‘Mostro delle mura”’; bene, ora togliete una ad una fino a far rimanere sette tesserine: quel che resterà è più o meno ciò che i giudici di Roma della Cassazione hanno stabilito possa essere ‘salvato’ dell’imponente struttura realizzata in una zona sottoposta al vincolo paesaggistico, nel cuore della città del festival, a cinque metri dalle mura medievali del XIII-XIV secolo. La parola passa comunque alla Corte d’Appello di Firenze, competente territorialmente, visto che per la prescrizione c'è tempo ancora fino a novembre prossimo.
Il dispositivo che Tuttoggi.info ha potuto leggere e che può riportare in anteprima rischia però, al di là di eventuali risvolti penali, di produrre effetti di non poco conto sotto l’aspetto civilistico: per il costruttore (che l’ha realizzato e in gran parte venduto), per il Comune (che ha concesso le autorizzazioni) e, non da ultimo, per gli stessi proprietari. Con conseguenze che non è facile neanche immaginare. E che potrebbero interessare altri Comuni dell'Umbria, se è vero che anche altrove sono stati applicati gli indici di edificabilità adottati da Spoleto. Per gli Ermellini del Palazzaccio, che hanno riconosciuto la correttezza dell’operato della rocura (pm Federica Albano) e del giudice di primo grado (Alberto Avenoso) di Spoleto, la costruzione comunque è illegittima. Ma andiamo con ordine.
Le due sentenze – in primo grado il Tribunale di Spoleto, accogliendo le tesi dell'accusa, aveva condannato il costruttore, il titolare dell’area, i due progettisti e due funzionari del comune tutti a 4 mesi di reclusione e 25mila euro di multa ciascuno (con relativo abbattimento di almeno 9mila dei 15 metri cubi costruiti). A distanza di poco più di un anno però la Corte d’Appello di Perugia, ribaltando il primo grado, aveva assolto tutti con formula piena perché “il fatto non sussiste” e restituito i due palazzi alla società Madonna delle Grazie S.r.l. del costruttore Rodolfo Valentini.

Il puzzle da 10 – la Procura della Corte d’Appello di Perugia (Giancarlo Costagliola e Roberta Barberini) aveva impugnato il provvedimento davanti alla Suprema Corte di Cassazione ritenendo la sentenza viziata per 10 motivi. Ebbene gli Ermellini ne hanno accolti ben sette (la Terza Sezione era composta dal presidente Alfredo Teresi e dai consiglieri Mariapia Gaetana Savino, Lorenzo Orilia, Vito Di Nicola e Chiara Graziosi, quest’ultima giudice estensore), praticamente demolendo, è proprio il caso di dirlo, il dispositivo. A rappresentare l’accusa era il sostituto procuratore generale Gioacchino Izzo.

Prescrizione non imminente – per i giudicanti l’estinzione dei reati “non è imminente” dal momento che l’udienza del 23 ottobre 2012 era stata rinviata per lo sciopero degli avvocati al successivo 18 giugno. Quasi otto mesi che spostano quindi l’ago della bilancia, la prescrizione appunto, alla metà di novembre prossimo. Sembra scontato che, se Firenze farà in tempo ad emettere la sentenza, l’eventuale ulteriore ricorso in Cassazione, sia della difesa, sia dell'accusa, registrerebbe l'intervento della misura prescrittiva. Ma con ogni probabilità non le eventuali conseguenze civilistiche.
L’indice di edificabilità – La Corte di Perugia aveva concluso che l’indice di edificabilità (ritenuto dagli inquirenti almeno due volte superiore a quello consentito, in pratica 2,9 mc/mq anziché 7,5 mc/mq) era corretto in quanto calcolato “con riferimento a tutta la superficie del comparto e non soltanto con riferimento all’area di sedime dell’edificio (2.200 mq, n.d.r.) destinato ad abitazioni”. Per i giudici della Suprema Corte “la sentenza anziché accertare quale sia la corretta interpretazione degli standard urbanistici di cui al dm 2 aprile 1968 n. 1444 a proposito dell’indice di edificabilità, si arrocca su un piano assertivo che fa riferimento soltanto agli esiti della perizia disposta dalla corte territoriale, come se al perito fosse stata deputata la risoluzione di una questione evidentemente di diritto”. Quella norma, si legge nel dispositivo, ha peraltro “valore di Legge dello Stato” e pertanto “gli strumenti urbanistici non possono discostarsene, prevalendo il decreto anche sui regolamenti locali….”. Si sarebbe per questo dovuta applicare la norma che, per le zone A, indica: “per le eventuali nuove costruzioni ammesse, la densità fondiaria non deve superare il 50% della densità fondiaria media della zona e, in nessun caso, 5 mc/mq”. Dove, per dottrina e giurisprudenza, la densità edilizia fondiaria “concernendo la singola area e definendo il volume massimo edificabile sulla stessa, implica che il relativo indice sia rapportato all’effettiva superficie suscettibile di edificazione”. Scrivono ancora gli Ermellini: “mentre la densità territoriale attiene al comparto, al lordo di strade e altri spazi pubblici, la densità fondiaria attiene la singolo lotto o fondo identificato al netto delle aree asservite a standard urbanistici: vale a dire, la corrispondente superficie fondiaria è identificabile nella superficie del lotto edificabile al netto delle superfici destinate ad opere di urbanizzazione primaria e secondaria”. La Corte di Perugia ha fatto confusione “applicando il criterio della densità edilizia territoriale in luogo di quello della densità edilizia fondiaria, in contrasto con la giurisprudenza amministrativa, consolidata e che non vi è alcun motivo per contraddire”. Quanto alla questione della perequazione i giudici ricordano che “qualunque accordo stipulato dalla Pubblica amministrazione non può comunque assumere un contenuto contra legem”. Dunque anche “l’accordo bonario (fra Comune e proprietario di parte dell’area, n.d.r.) non poteva consentire il superamento dell’inderogabile limite di densità edilizia per nuove costruzioni in zona A…..e ciò assorbe ogni altro profilo, inclusi quelli della possibilità di coesistenza in un comparto di opere pubbliche e di opere private e della qualificazione dell’area destinata a parcheggio”.
Violazione macroscopica – L’Appello aveva mandato assolti i sei in quanto la violazione delle norme edilizie poteva non definirsi ‘macroscopica’ in virtù della “complessità delle questioni giuridiche, l’impegnativo iter seguito per l’approvazione del Paru e gli annullamento disposti dalla Sovrintendenza prima di rilasciare il consenso a fronte di una notevole riduzione della volumetria” che “potevano indurre ragionevolmente gli interessati a confidare nella legittimità del Paru e del permesso a costruire”. Inoltre il perito nominato dai togati di Perugia aveva accertato che in Umbria “dal 1985 fino alla sentenza impugnata – si legge sempre nel dispositivo della Cassazione – l’indice di edificabilità era stato sempre calcolato nel modo contestato e che la natura non macroscopica della violazione sarebbe dimostrata dal fatto che né l’autorità amministrativa né l’autorità giudiziaria durante tutta l’esecuzione dei lavori ne avevano disposto la sospensione o il sequestro”. Insomma, per il perito della Corte d’Appello, anche altrove si sarebbe operato come a Spoleto. Un errore quindi “scusabile/inevitabile”. Ma la Cassazione, richiamando altre sentenze di terzo grado, non è stata dello stesso parere dal momento che non può esservi errore se “l’agente svolge una attività in uno specifico settore rispetto alla quale ha il dovere di informarsi con diligenza sulla normativa esistente”. I giudici di Perugia non hanno “esaminato la condizione degli imputati, tutti operatori del settore, alcuni quali funzionari pubblici altri nell’esercizio delle proprie attività professionali e imprenditoriali; né ha considerato che il profilo volumetrico dell’edificio non poteva, appunto per degli operatori del settore, sfuggire al dm 1444/1968”. Che è proprio quanto aveva sentenziato il giudice di Spoleto. Per gli stessi motivi i giudici della Capitale hanno riconosciuto fondati altri quattro punti impugnati dalla Procura generale perugina in ordine “all’ammissione della perizia in rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale e sugli esiti della perizia”.

Il senso estetico – fin qui la decisione per quanto attiene l’abuso edilizio. Imprenditori e tecnici erano stati assolti in Appello anche dal reato di “distruzione o deturpamento di bellezze naturali”. I giudici del Palazzaccio ritengono che la Corte d’Appello ha sbagliato nel considerare “insussistente” questo reato dal momento che era venuto meno quello dell’abuso. “Si tratta di reati posti a presidio di beni giuridici diversi – scrive la Terza Sezione – per i quali non può sussistere consequenzialità”. Non solo. Per i giudici di secondo grado, il Tribunale di Spoleto ha attribuito “alle dimensioni del complesso edilizio e al suo aspetto moderno l’effetto di turbare il godimento estetico dei visitatori del luogo a causa di un negativo impatto del complesso sull’assetto preesistente” mediante espressioni che “sembrano rappresentare più una considerazione del Giudice piuttosto che quello (sic) dei visitatori del luogo”. Insomma il giudice di Spoleto avrebbe fondato la decisione più sul suo “senso estetico soggettivo” anziché considerare l’assenso della Sovrintendenza. Ma anche su questo la Cassazione non è affatto d'accordo. Scrivono i quattro togati: il giudice di primo grado “non ha esaminato il capo di imputazione sulla base di una propria ottica soggettiva – di cui invece si è visto non far risparmio il giudice d’appello, laddove asserisce che qualunque novità produce (non interessa ma addirittura) stupore e che la tendenza architettonica odierna consisterebbe nel creare netti contrasti nel contesto antico -, bensì ha proceduto secondo una attenta impostazione razionale e oggettiva….il Tribunale (di Spoleto, n.d.r.) ha effettuato l’accertamento sulla base di oggettivi elementi fattali a sua disposizione, identificati nell’importante entità della volumetria e nella realizzazione di un edificio di tale entità volumetrica e di aspetto moderno in una zona vincolata”.
E ora? – praticamente impossibile poter fare qualunque previsione. A preoccupare le difese, i proprietari degli appartamenti e la stessa amministrazione comunale (che nel processo è parte offesa) sono gli eventuali aspetti civilistici che conseguiranno una volta messa la parola ‘fine’ alla vicenda. Una storia che, teoricamente, potrebbe tenere ancora sul fiato sospeso per anni: che possa somigliare a quella dell’Hotel Fuenti sulla Costa amalfitana? A Spoleto un precedente in qualche modo c’è già, la ‘buca di Poreta’, meglio nota come Ipposcandalo che vide tutti assolti per prescrizione. Ma in quel caso non vi fu alcuna conseguenza sotto il profilo civilistico. Stavolta invece la situazione è più complessa. Non fosse che per la compresenza di troppi e contrapposti interessi privati.
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