C’è a Foligno, tra il nuovo ospedale e la nuova chiesa, una striscia di terra incolta. O meglio, c’era. Tra l’approvazione per un ospedale all’avanguardia e i mugugni per una chiesa dalla forma semplice quanto enigmatica – la chiesa di San Paolo, o, come è nota in città, il Cubo di Fuksas – c’era uno spazio che altro non destava se non l’indifferenza dei grovigli di erbacce e rovi.
C’era tutto questo prima che Don Giovanni in collaborazione con la Caritas non decidessero di suddividere il terreno a disposizione della chiesa in 27 lotti rettangolari da 56 mq (4 mt x 14 mt), da affittare (acqua e attrezzi inclusi) per una cifra irrisoria e puramente simbolica a coloro i quali avessero il desiderio di riconciliarsi alla terra e ai suoi prodotti.
All’apparenza, dal di fuori, sembra trattarsi di un unico pezzo di terra; in realtà vi sono interruzioni della staccionata, oltre la quale si sviluppa l’Orto dei Giulivi, da cui iniziano stradine calpestabili che segnano confini invisibili eppure incontestabili degli orti: questo confine puramente simbolico rende imprescindibili i rapporti col vicinato. Si assiste così alla naturale collaborazione tra confinanti, frutto di retaggi culturali di diverse estrazioni sociali e differenti culture: i lotti di terra sono stati infatti assegnati indiscriminatamente a gente di città alle prime armi, a contadini navigati, a famiglie di extracomunitari e a cooperative sociali. Così si condividono esperienze, si suggeriscono prodotti, si abbattono gap culturali e generazionali, si stilano statistiche o grossolane teorie e, come in ogni rapporto di vicinato, non manca una sana competizione per aggiudicarsi il primato immaginario dell’orto migliore.
Non siamo in presenza dell’orticello che si fa nel giardino di casa propria, della prosecuzione dell’intimità del proprio appartamento, siamo invece in presenza di un punto di incontro con altri contadini improvvisati e amici curiosi: un nuovo luogo dove fare salotto (o sal-orto). E allora ecco che oltre gli instancabili uomini di generazioni precedenti, si incontrano ragazzi che all’ora dell’aperitivo zappano e chiacchierano, annaffiano e fumano (la cenere fa bene alla terra!) e gustano pomodori appena colti. Ragazzi che sfuggono la crisi, l’aggirano cercando alternative economiche, proficue e sane. Riscoprono il valore della terra con pratiche che suonano nuove ma sono vecchie di millenni, sono nei primi capitoli dei libri della storia del mondo, nel proprio dna, sotto le unghie dei nostri nonni e che sembravano scomparse nei nostri genitori e virtualizzate nelle nuove generazioni che al pc coltivano immensi campi e costruiscono città in poche ore e in pochi clic, ma la realtà è diversa: ci si deve sporcare mani e scarpe, si devono fare piani da uno a sei mesi, si deve faticare, pazientare, avere calli, respirare, osservare, riconoscere-maledire-sradicare erbacce, e ancora pazientare, meditando.
E ora che è novembre ci vediamo al sal-Orto dei Giulivi, finché c’è luce, per la semina delle fave.
(f.m.)
Scendere in campo in tempo di crisi: l’orto in città, davanti alla Chiesa di Fuksas – Foto
Gio, 03/11/2011 - 17:01