ELUANA: QUEI CASI FRA SPOLETO E FOLIGNO. PARLANO I FAMILIARI: “LASCIATE MORIRE MIO MARITO”. “AIUTO ASL? 2 H LA SETTIMANA”. - Tuttoggi.info

ELUANA: QUEI CASI FRA SPOLETO E FOLIGNO. PARLANO I FAMILIARI: “LASCIATE MORIRE MIO MARITO”. “AIUTO ASL? 2 H LA SETTIMANA”.

Redazione

ELUANA: QUEI CASI FRA SPOLETO E FOLIGNO. PARLANO I FAMILIARI: “LASCIATE MORIRE MIO MARITO”. “AIUTO ASL? 2 H LA SETTIMANA”.

Sab, 19/07/2008 - 14:29

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“Dormono”, da anni.. E sono tanti, una sorta di esercito (più di tremila) gli italiani che si trovano in stato vegetativo, accuditi nella maggior parte dei casi dall’amore e dalla forza della disperazione dei loro famigliari. Il caso di Eluana, e la sentenza dei giudici di Milano che il 9 luglio hanno autorizzato il papà ad interrompere il trattamento di idratazione e alimentazione forzato che da 16 anni tiene in vita la figlia, hanno riacceso i riflettori sul dramma dei pazienti che si trovano in quelle condizioni. Di quest’oggi, sulle colonne del Corriere della Sera, l’inchiesta fatta da Mario Pappagallo e Grazia Maria Mottola che, in due distinti servizi, hanno fatto il punto della situazione prendendo a riferimento anche alcuni casi della Asl3, l’azienda sanitaria di Spoleto-Foligno e Valnerina.

«L'AIUTO DELLA ASL? DUE ORE LA SETTIMANA»Uno schianto in moto. E la vita non è più vita. Come quella di Marco Princia, 48 anni, da cinque cerebroleso grave, dopo essere rimasto per mesi attaccato a un respiratore, nonostante le preghiere della moglie Cadia: «Lasciatelo morire». Ha supplicato e urlato con tutta la forza che aveva la moglie di Marco. Inutilmente. «Il risultato — dice — è quello che ho davanti, qui, tutti i giorni: mio marito ridotto a un vegetale. Se fosse cosciente, si ucciderebbe».

Parole dure, che non lasciano scampo. Cadia, 46 anni, di Spoleto, una volta operaia, oggi voce e braccia di Marco, è disperata. Assistere il marito significa, ogni giorno, tanta fatica, fisica e morale, e senso di impotenza. E poi la solitudine, immensa, da quando Marco non è più lui. «Lo guardo e non lo riconosco, ma non ce la faccio a stare lontana, mi sento in colpa, ormai è come se fosse mio figlio». I giorni passano, sempre uguali. La sveglia suona presto, poi le attenzioni sono tutte per Marco. Spostarlo, lavarlo, imboccarlo. Il cibo: quella che sembra essere la sua unica gioia. Marco riconosce i sapori, almeno così pare. Merito di Cadia, che lo fa deglutire, nonostante i rischi che corre (il cibo potrebbe andargli di traverso): «Non voglio togliergli anche questo, se starà male si vedrà». Poi, una volta alla settimana, due ore di sollievo: l'Asl manda un operatore che aiuta Cadia a fare la doccia a Marco. L'altra ora le serve per andare dal parrucchiere.

Questo l'aiuto che riceve. Per il resto, a parte le medicine salvavita, la gestione di Marco è a suo carico: «Ho chiesto all'Asl che facesse fisioterapia, sono ancora in attesa di una risposta. Mio marito, però, non può aspettare. Così pago 80 euro alla settimana per due ore di attività, altri 30 euro al mese per farmaci che non mi vengono rimborsati, poi ci sono i soldi per mia figlia che purtroppo ha bisogno di un supporto psicologico». L'ipotesi di farlo entrare in una struttura specializzata? «Non c'è nulla nelle vicinanze. Dovrei trasferirlo molto lontano da casa. Sempre ammesso di trovare posto».

A trenta chilometri da Spoleto, un'altra vita in frantumi. Fabio Farinelli, 36 anni, da sei distrutto da un incidente stradale. Lesioni cerebrali gravissime. Di lui resta il ricordo che sostiene sua madre Laura. «Ho costruito questa casa per Fabio — dice — perché un giorno, quando noi genitori non ci saremo più, possa vivere comodamente, senza barriere architettoniche». Nessun contributo da parte della Regione: «Stiamo aspettando un rimborso di 5 mila euro dal 2003, ma finora niente da fare». Il mutuo (da trecentomila euro) è ancora in corso, e le spese non finiscono mai. «Non abbiamo scelta: spendiamo 35 euro l'ora per fisioterapia e idroterapia, otto volte al mese; altri 80 per i farmaci, poi ci sono i costi del riscaldamento: Fabio ha bisogno di stare al caldo più di noi». Ma a differenza di Cadia Princia, la signora Farinelli un supporto ce l'ha: un operatore dell'Asl l'aiuta per due ore al giorno, dal lunedì al venerdì: «È l'unico aspetto positivo della nostra disgrazia, da sola non saprei proprio come fare».

Meno fortunata L. V. (che chiede di non essere citata con il nome per esteso): sua madre, 76 anni, colpita da emorragia cerebrale, vegeta in una stanza assistita totalmente da una badante: «Spendiamo 800 euro al mese, perché l'unico sostegno offerto dall'Asl era un intervento una volta alla settimana. Una struttura dove ricoverarla? Nella zona non ce ne sono». Stesso ritornello in Campania, dove è attiva l'associazione di volontariato «Amici di Eleonora»: «Qui non ci sono strutture sufficienti, per questo spesso dirottiamo i pazienti campani in altre regioni — spiega il fondatore Claudio Lunghini, papà di Eleonora (che ha dato il nome all'associazione) morta da neonata dopo sei mesi in stato vegetativo —. L'ultimo caso lo abbiamo risolto rivolgendoci a un centro in Toscana. Sarà l'Asl campana a pagare 400 euro al giorno a quella Regione».

Tre le situazioni andate a buon fine negli ultimi novanta giorni. Non ultima quella di un ragazzo rimandato a casa, perché senza possibilità di recupero: per mesi è stato accudito dalla famiglia. Dalla Asl solo un'infermiera una volta alla settimana, per il resto l'assistenza è stata affidata a professionisti privati. «Per fortuna è finita bene — sottolinea Lunghini —, ma in Campania basta poco per sfiorare l'emergenza. E non esagero. Io sono bolognese e mi sono trasferito qui per lavoro e famiglia. Ma mio padre è rimasto in Emilia. Da quando si è ammalato, ogni giorno la Asl gli manda quattro infermiere. Questa è la differenza». Gra. Mot.

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MIGLIAIA COME ELUANA E L'ASSISTENZA È A CASA

Disabilità assoluta. Ovvero stato vegetativo. Oltre c'è solo la morte. Eluana e gli altri: tra i 2.800 e i 3.360 i casi in Italia. La stima dei ricercatori del Gracer (Gravi cerebrolesioni Emilia Romagna), titolari dell'unica banca dati attiva a livello nazionale. Partita nel 2004, recepita nel 2005 in un documento del ministero della Salute che avrebbe voluto estenderla alle altre Regioni (ma il documento non venne approvato dalla conferenza Stato-Regioni), ha ribaltato il valore dell'incidenza di gravi cerebrolesioni sulla popolazione finora ipotizzato dalla letteratura scientifica: non più 20-30, ma 50-60 soggetti in stato vegetativo su un milione di abitanti. Il doppio.

Numeri destinati a crescere, secondo Nino Basaglia, presidente Gracer, direttore del Centro gravi cerebrolesioni di Ferrara. «È l'altra faccia della medaglia — spiega Basaglia —, laddove le tecniche di rianimazione sono efficaci e migliorano, accanto a una vita salvata possono esserci danni cerebrali permanenti». E Dario Caldiroli, primario neurorianimatore del Besta di Milano, parla di «punta di un iceberg»: «I soggetti in stato neurovegetativo potrebbero anche essere oltre 4.000. Molti vengono assistiti in casa». In alcune zone del Sud vengono addirittura tenuti nascosti, in casa. Una sfortuna da non mostrare. A parte la morte cerebrale con elettroencefalogramma piatto (che è, per legge, decesso), esiste tutta una scala di gravità nelle lesioni cerebrali che non consente nemmeno alla scienza di poter calcolare la durata di uno stato vegetativo né l'esito. Ma avverte Caldiroli: «Pur essendo le possibilità di recupero sempre minori con il passare del tempo è assurdo poter parlare di certezza di irreversibilità».

E vi sono pazienti, come Eluana, che vanno avanti anni e anni. Specie i cerebrolesi giovani, nei quali solo il cervello ha subito un trauma devastante. Spesso supportati solo da un sondino per cibo e acqua. Nessun macchinario salvavita. Vanno avanti decine d'anni, ma occorre spostarli in continuazione (per evitare le piaghe da decubito) e sottoporli a continua fisioterapia. I costi, nell'Italia dalle mille realtà, variano da 450 a 105 euro al giorno. A carico dello Stato. Anche se spesso, in base al reddito, le famiglie sono chiamate a partecipare alle spese: anche con mille euro al mese. Comunque, strutture pubbliche o convenzionate, ogni soggetto in stato vegetativo costa allo Stato da 39 mila euro a 165 mila euro all'anno. I costi per la famiglia variano da Regione a Regione e se l'assistenza è in un centro o a domicilio. In molte zone d'Italia sono del tutto a carico della famiglia. Dallo stato vegetativo o si esce, raramente, o si passa a situazioni più gravi. Su 2.230 pazienti monitorati in Emilia Romagna (età media 55 anni) a partire dal primo maggio 2004, oggi sono 240 quelli ancora in stato vegetativo, 119 i gravi.

Dove vivono? La maggior parte in casa, con le famiglie. Il resto: nelle Rsa (residenze sanitarie assistite), case protette, strutture di lungodegenza. Scenario diverso in Lombardia, dove i numeri crescono: 481 persone in stato vegetativo risultano ospitate in 41 Rsa (su 624 strutture per un totale di 55 mila posti letto); altre 250 vengono accolte in casa. I costi: tra i 105 e i 180 euro al giorno. Strutture accoglienti anche in Veneto, dove, con una spesa media di 180 euro al giorno, 120 malati sono assistiti in 15 strutture assistenziali attivate dalla Regione.

E il destino delle altre migliaia di pazienti? Indicativo uno studio del Giscar (Gruppo italiano per lo studio delle gravi cerebrolesioni acquisite e riabilitazione) diretto da Mauro Zampolini, responsabile del Dipartimento riabilitazione Asl 3 in Umbria: 390 pazienti in stato vegetativo, provenienti da 52 centri di riabilitazione, sono finiti sotto la lente dei ricercatori per due anni. Al termine del percorso ospedaliero, ecco la loro «destinazione»: per il 40 per cento di loro si sono aperte le porte di casa, una minoranza è tornata in riabilitazione, il resto nelle Rsa. Risultati che si prestano a una duplice lettura: «Se vogliamo essere ottimisti — spiega il medico —, il dato che le famiglie assistano i loro malati dimostra quanto sia forte la cultura dell'accoglienza. Un'altra interpretazione è che forse questi pazienti non hanno alternativa». O in casa oppure niente. Una prospettiva che, a giudicare dalla localizzazione delle strutture idonee ad assisterli, sembra porsi soprattutto nel Sud. Secondo il censimento Giscar, i luoghi di riabilitazione si concentrano nel Centro-Nord.

Per quanto riguarda le Rsa, basti dire che la sola Regione Lombardia conta 55 mila posti letto, il 50 per cento della disponibilità a livello nazionale. Corsa verso le strutture del Nord e liste d'attesa: l'alternativa per i familiari dei malati, spesso supportati da associazioni di volontariato. In attesa di un posto letto, resta l'assistenza a domicilio, per la quale il ministero della Salute ha dettato precise direttive a supporto delle famiglie (soprattutto se i pazienti sono giovani): due ore al giorno di nursing, riabilitazione domiciliare, possibilità di affidare il malato a un centro diurno una o due volte alla settimana. Standard di assistenza che però non sono omogenei, da Regione a Regione, spesso neppure da provincia a provincia. Criticità sulla quale punta il dito Basaglia: «Non bisogna trascurare che i familiari vanno incontro a carichi di lavoro enormi, oltre a pesanti conseguenze psicologiche. Cito un caso: un mio collega gastroenterologo, Marco Miglioli, ha ucciso il figlio in stato vegetativo, poi la moglie, infine si è suicidato. Ecco una storia da non dimenticare».

Mario Pappagallo e Grazia Maria Mottola

(da Corriere.it)


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