Caporalato e sfruttamento dei lavoratori, il clan agiva anche a Perugia

Caporalato e sfruttamento dei lavoratori, il clan agiva anche a Perugia

Massimo Sbardella

Caporalato e sfruttamento dei lavoratori, il clan agiva anche a Perugia

Ven, 05/08/2022 - 13:05

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Un indiano a capo dell'associazione che sfruttava connazionali, bengalesi e pakistani una volta fatti arrivare in Italia

Aveva ramificazioni anche nel Perugino l’associazione che secondo la Procura della Repubblica di Padova agiva come intermediaria illecita favorendo casi di caporalato e sfruttamento dei lavoratori. La guardia di finanza di Padova ha dato esecuzione a un’ordinanza, che ha disposto la misura cautelare interdittiva del divieto temporaneo di esercitare l’attività imprenditoriale per un anno nei confronti del promotore di un’associazione e al contestuale sequestro di beni e disponibilità finanziarie per oltre 750 mila euro.

Le indagini svolte dai militari del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Padova, che hanno visto il
coinvolgimento di 15 indagati per lo più indiani, di cui 7 destinatari del citato provvedimento cautelare personale e reale, distinti tra promotore, organizzatori e partecipi, hanno permesso di disarticolare un’associazione per delinquere capeggiata da un cittadino indiano. L’uomo, residente da tempo nel padovano, godeva di ramificazioni in diverse città (Alessandria, Mantova, Brescia, Verona, Vicenza, Padova, Venezia, Parma, Bologna, Forlì-Cesena, Arezzo, Perugia e Lecce), dedita allo sfruttamento di numerosi lavoratori – principalmente connazionali, ma anche bengalesi e pakistani.

Gli accertamenti

Gli accertamenti svolti, avvalendosi anche della collaborazione dei funzionari dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Padova, hanno consentito di constatare che l’organizzazione in rassegna si occupava, innanzitutto, del reclutamento della manodopera, che avveniva tra soggetti stranieri in stato di bisogno o necessità presenti sia sul territorio nazionale, sia – soprattutto – nello stato indiano del Rajasthan, dove emissari dell’associazione criminale – nella fattispecie familiari del dominus – attingevano manovalanza dalle fasce più povere della popolazione rurale, prospettando migliori condizioni di vita e lavorative a fronte del pagamento di un’ingente somma, di cui un anticipo da corrispondere in madrepatria e il resto mensilmente, una volta intrapresa l’attività lavorativa in Italia.

L’arrivo in Italia

Appena giunti sul territorio nazionale, i lavoratori ottenevano un regolare permesso di soggiorno grazie
all’immediata assunzione presso cooperative fornitrici di forza-lavoro per la gestione di magazzini della grande distribuzione, siti principalmente nel nord Italia, ma anche in Toscana, Umbria e Puglia.

I lavoratori, infatti, erano sottoposti alla pressante vigilanza dell’organizzazione, che dislocava presso ogni
cooperativa un fidato sodale con il compito di spegnere, con la minaccia e talvolta con l’uso della forza, ogni tentativo di protesta o ribellione, controllando anche la fruizione di ferie o permessi, nonché disincentivando l’eventuale adesione a organizzazioni sindacali.

Minacce di ritorsioni sui familiari

Il clima di costante intimidazione era alimentato anche dal timore di possibili ritorsioni sui familiari rimasti in India. La soggezione delle vittime si manifestava anche fuori dai luoghi di lavoro: gli stessi – già gravati dalla necessità di mantenere le famiglie d’origine – erano costretti a restituire le ingenti somme dovute per l’ingresso e l’ottenimento dell’impiego in Italia, nonché obbligati a dimorare presso le abitazioni nella disponibilità degli organizzatori del sodalizio criminale, spesso in situazioni alloggiative degradanti, per essere sottoposti a un controllo stringente fino al pieno soddisfacimento della pretesa economica.

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