“Devo mettere le parole dentro alle cose, come si mette il coltello dentro allo stomaco delle galline”. È questa necessità di conoscenza e di scoperta a guidare tutta la trama dello spettacolo “Coltelli nelle galline” – all’interno del cartellone dello SpoletoFestival 2019 – in scena fino la 14 luglio all’Auditorium della Stella di Spoleto.
Una location perfetta per un allestimento e una scenografia essenziali, ma efficaci per raccontare nel modo più pulito e comprensibile il “passaggio” umano dei tre personaggi, ognuno al proprio stadio di vita successivo, compresa quello della morte.
L’ambientazione della storia, primo capolavoro del drammaturgo scozzese David Harrower, è rurale. Una campagna di fatica, fatta di ruoli definiti e di stagioni, in cui il lavoro sembra costringere ad una soltanto le necessità dell’uomo: sopravvivere seguendo la legge della natura, ossia di Dio. Una volontà esterna che scagiona l’individuo dalle proprie scelte.
Sulla scena (studiata e realizzata nel laboratorio del teatro Franco Parenti in collaborazione con gli studenti del NABA e dell’Accademia delle Belle Arti di Milano) sono sempre presenti due ambientazioni: la casa della coppia di contadini, “Pony” William (Alberto Astorri) e sua moglie (Eva Riccobono), e la casa di Gilbert Horn il mugnaio (Pietro Micci).
Gli spostamenti da un luogo ad un altro del racconto sono spiegati ingegnosamente attraverso alcuni modellini in miniatura, sempre presenti sul palco. Le transizioni sottolineate dalla proiezione di immagini sulle quinte bianche del fondale.
La trama è quella della liberazione della Giovane Donna attraverso il potere del linguaggio e della conoscenza. È lei, unico personaggio a non avere un nome nella narrazione, a cercare proprio nella potenza della parola l’evoluzione dal suo stato di moglie-proprietà, a persona libera.
Liberazione che trova la scintilla e trae la sua ispirazione nel fascino del mugnaio del paese, a sua volta appassionato di lettura e scrittura. E si realizza con la morte del contadino, ignorante e intrappolato nell’obbedienza alle tradizioni, per mano dei due.
Una contrapposizione di movimento narrativo: uno verso il basso, alla terra scura, alla staticità, e uno verso l’alto, uno slancio dinamico, alle nuvole bianche, quelle che la Giovane Donna nomina con cadenza ripetitiva cercando di imparare tutti i nomi del mondo che ci vive sotto.
In mezzo c’è la macina che è pietra pesante e scura quando è trasportata verso il mulino dai gretti abitanti del villaggio e allo stesso tempo è agile nella sua rotazione e bianca di farina. Simbolo di trasformazione del grano che viene dalla terra in cibo per gli uomini, del passaggio dal buio all’illuminato. Quella macina che uccide il Contadino e libera la Giovane Donna e il Mugnaio in un’evoluzione di coscienza personale.
Sopra si muove l’amore, carnale e di necessità, egoisticamente funzionale alle esigenze di ognuno dei tre personaggi.
La regia di Andrée Ruth Shammah è tanto lineare, quanto intensa. Chiara. Densa di dettagli, appoggiati ad aggiungere significato. Come l’uso della “figurina” di se stessa, che la Giovane Donna stringe sempre fra le mani e posiziona via via nelle diverse miniature delle case, per sottolineare dove è intrappolata in quel momento della storia, fino a sparire quasi inavvertitamente tra gli oggetti di tutti i giorni quando inizia il cammino di crescita.