Luca Canali si è spento oggi a Roma a 89 anni; uno degli ultimi grandi studiosi italiani lascia orfana la lingua latina, della quale è stato padre nella modernità. Roma, epicentro della cultura classica romana, era stata l’unica città nella quale l’accademico abbia mai desiderato vivere, dove ogni angolo parla latino e racconta quegli episodi che Canali ha reso immortali nei suoi romanzi. Traduttore, poeta, narratore, affabulatore: una laurea in letteratura latina su Lucrezio, per poi diventare assistente di Ettore Paratore e Natalino Sapegno.
Una produzione letteraria fortemente autobiografica: l’amore, l’eros, la guerra, la Resistenza, sono i temi sui quali Canali si è confrontato con la lucidità dell’intellettuale e la precisione dello studioso. Una visione aperta, critica, nei confronti della vita e della storia stessa. Dopo aver aderito al Partito D’Azione, a 20 anni si era iscritto al Partito Comunista, dal quale era stato espulso con l’accusa di “revisionismo”. Canali non aveva mai tollerato la posizione del Pci sui fatti di Ungheria, difendendo sempre la sua libertà di libero pensatore di sinistra, ma indipendente dall’apparato di partito.
Le sue traduzioni di Virgilio e Lucano rimangono senza dubbio gli esempi più alti nella comprensione delle sfumature poetica delle opere latine, alle quali lega una vita tormentata dalla nevrosi e dalla sofferenza: la scrittura e il pensiero sono come terapie.
Un’adolescenza passata in una traversa di Via Del Babuino, tra 3 postriboli, luoghi bramati della prima gioventù, dove, come una spugna, Canali amava imbeversi di sapori e profumi.
La maturità degli studi, fino all’amicizia con Fellini che lo volle per il “Satyricon” affinché potesse indicargli cosa “non fare” e non “cosa fare”.
Ecco cosa racconta nella celebre intervista di Antonio Ginoli per “La Repubblica”: “Non amo la solitudine, non l’ho scelta. Essa mi pesa enormemente. Eppure è qui, accanto a me, esigente nel rivendicare ogni volta il suo diritto. Faccio fatica a capire il senso di qualcosa che negli anni è diventata una prigione”.
E poi sulla malattia: “Ero doppiamente malato. Fui investito da una profonda depressione, che quando è seria ti viene voglia di ammazzarti; e l’altra malattia, fastidiosissima e fortemente condizionante, fu una psiconevrosi fobico ossessiva”.
E sulle fobie: “Le fobie si manifestavano nel fatto, ad esempio, che le cose dovevano essere disposte in un certo modo. Ero capace di tornare improvvisamente a casa se solo fossi stato sfiorato dal dubbio che un certo oggetto era in un posto diverso da dove io lo immaginavo. O se avevo la sensazione di essermi dimenticato qualcosa che volevo ricordare, potevo restarne ossessionato per giorni. Perfino i nomi delle persone costituivano un problema. Se dimenticavo un nome, mi accadeva di passare nottate su un elenco telefonico per vedere se casualmente riaffiorasse. Tutto poteva trasformarsi in un’ossessione”.
©Riproduzione riservata