Sono rimasti in silenzio per tre lunghi anni sperando di ottenere i loro stipendi. Sono i soci-lavoratori de Il Piccolo Carro, la cooperativa umbra finita a settembre 2016 al centro di una inchiesta giudiziaria e di un polverone mediatico che, con il passare del tempo, hanno mostrato più di una crepa. Un silenzio divenuto insopportabile visto che da un anno a questa parte la Corte di Cassazione ha decretato l’annullamento del sequestro, confermato il successivo dicembre dal Tribunale del riesame di Perugia. Ma di quegli emolumenti – mediamente i soci dipendenti devono avere 9 mensilità e il tfr, in qualche caso fino a 18 mensilità – non c’è traccia, neanche un sentore. Una situazione kafkiana, quasi una sceneggiatura da teatro dell’assurdo. Da una parte c’è lo Stato che indaga, sequestra e pignora le somme sequestrate; dall’altra lo stesso Stato che annulla la revoca delle concessioni fin lì concesse, riaffida i minori e dispone il dissequestro.
Alcuni di loro hanno deciso di rompere il “muro” per far sentire la loro rabbia, che resta sempre composta forse per mascherare la disperazione. In tutto sono una quarantina i dipendenti che attendono di veder liquidate le proprie spettanze. Un tempo erano più di una settantina, quasi un centinaio considerando l’indotto. L’incontro con Tuttoggi.info avviene in un bar di Bastia, a qualche centinaio di metri da quella che un tempo era la sede principale della struttura dedicati ai minori, ragazzi e ragazze con problemi di varia natura, affidati al Piccolo Carro dalle Asl di mezza Italia, in qualche caso individuata anche da magistrati dei Tribunali per minori.
Rabbia e disperazione
Ai due incontri si presentano in cinque, tre donne e due uomini, tra gli ultimi ad abbandonare la cooperativa, chiusa definitivamente a ottobre 2018, quando anche l’ultimo dei giovani ospiti ha lasciato la struttura. Un miracolo averla tenuta in piedi fino a quel momento, se si pensa che conti correnti e beni, anche personali, erano stati interamente congelati da un anno. Tanto che il legale responsabile della struttura, Cristina Aristei e il marito Pietro Salerno che era Vicepresidente (il 12 settembre prossimo compariranno di fronte al Gup che dovrà decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio per presunta truffa e frode in pubbliche forniture), hanno dormito in un camper attrezzato fuori dalla struttura di Perugia pur di seguire gli ultimi ragazzi di cui erano rimasti affidatari. “Mi sono dimessa a marzo 2018” dice una ormai ex impiegata “ma dopo 15 mesi e ad un anno dalla sentenza della Cassazione ovvero 6 mesi da quella del Tribunale del riesame che ha accolto il ricorso della coop, non ho ancora visto nulla. Mi chiedo come è possibile che lo stesso Tribunale del riesame il 6 febbraio 2018 aveva accolto invece la richiesta del Gip di sequestro, costringendoci di fatto alle dimissioni. Mi domando come mai nessuno, e non mi riferisco solo alla giustizia ma anche a chi si è accanito contro il Piccolo Carro come certi esponenti del Movimento 5 stelle, ha pensato che il sequestro preventivo avrebbe colpito in primis proprio i minori che sono rimasti ospiti per quasi un ulteriore anno”.
“La cosa assurda di tutta questa vicenda, se si esclude un interrogatorio della sola rappresentante legale, è che nessuno dei dipendenti in servizio è stato mai ascoltato dagli inquirenti” sostiene un ex assistente sociale “ci si è limitati ad ascoltare solo qualche ex dipendente che, mosso per improvvisa ricerca di giustizia o per screditare la struttura solo il processo lo stabilirà, hanno rilasciato dichiarazioni che non hanno trovato tutti questi riscontri”. Domande in attesa di risposta anche quelle che formula un’altra ex socia che svolgeva mansioni operative nella coop: “ho solo due domande, le stesse da quel settembre 2016, perché ho perso il lavoro? Perché ad oggi, sia io che mio marito, non abbiamo ricevuto un centesimo per quanto abbiamo onestamente lavorato? Da quasi tre anni qualcuno, ovvero i nostri ex colleghi, con una semplice denuncia ha scatenato un inferno che ha sconvolto la vita di tante persone, senza al momento trovare una logica motivazione”.
“Quel 26 settembre lo ricorderemo a lungo” sostiene il secondo socio-lavoratore “più di cento finanzieri impegnati in un blitz, con l’ausilio anche dei cani antidroga, che sembrava dovesse svelare chissà quali bestialità ed invece, a leggere le carte che disponiamo, vedere che l’ipotesi della truffa è stata già smontata per la metà dei casi contestati dagli stessi giudici del Riesame chiamati dalla Cassazione a rivedere il decreto di sequestro. Non sono un inquirente, mi limito però a rilevare che la sola ri-lettura delle carte esclude la truffa su almeno 6 dei 14 episodi contestati e che lo stesso Riesame non è stato messo in condizione di poter quantificare l’effettivo presunto vantaggio economico. E quindi, era giusto distruggere una realtà che in venti anni si è occupata di assistere centinaia di ragazzi e ragazze conquistando la fiducia delle famiglie e non dimeno degli operatori sociali e sanitari?”. Per le risposte bisognerà attendere almeno l’udienza del Gup di Perugia che dovrà decidere sul rinvio a giudizio dei due indagati. Appuntamento, quello del 12 settembre prossimo, al quale stanno lavorando gli avvocati Giancarlo Viti e Mario Tedesco che nel tempo sono stati affiancati da altri professionisti per i vari aspetti di una inchiesta che ha toccato anche aspetti di natura amministrativa e tributaria. A loro si affianca il lavoro della dottoressa Alexandra Vergantini che segue la liquidazione volontaria della coop.
L’inchiesta, tra “equivoci”, “malizia” e consapevolezza
E’ il 26 settembre 2016 quando le fiamme gialle, su disposizione del pm Michele Adragna, irrompono nelle sei strutture della Cooperativa. L’inchiesta era partita dopo le dichiarazioni rese da alcuni ex dipendenti alla Tenenza di Assisi e le attività di indagine anche con il ricorso alle intercettazioni telefoniche. L’ipotesi di reato è quella di truffa in quanto la coop. non ha (o forse non avrebbe, visto il prosieguo delle indagini e di alcuni documenti rilasciati dalle istituzioni) la certificazione idonea ad operare in campo sanitario. A tempo di record, il 28 settembre, il Comune di Assisi revoca al Piccolo Carro l’autorizzazione al funzionamento della “comunità educativa residenziale per minori e immediata cessazione dell’attività” che insiste sul territorio di competenza (le altre strutture sono su altri comuni del perugino). Il Tar dell’Umbria all’udienza del 26 ottobre 2016 accoglie il ricorso della struttura presentato dall’avvocato Massimo Marcucci di Spoleto e annulla la revoca municipale concedendo la sospensiva. L’ordinanza dei giudici amministrativi accende più di una speranza tra i soci. Scrivono infatti i giudici che “nel bilanciamento dei contrapposti interessi appare prevalente quello della Cooperativa alla continuazione delle attività non essendosi rilevati concreti pregiudizi per la salute dell’utenza” e ancora che “lo svolgimento di attività anche ‘sanitaria’, benché formalmente non consacrata in atto di intesa con la Asl competente (Asl1 dell’Umbria, n.d.r.), sia stata di fatto resa in colmo accordo con i soggetti istituzionali coinvolti”. Insomma, tutti sapevano.
Una prima, parziale vittoria che consente alla struttura di poter proseguire nella sua attività. Stesso esito di fronte alla revoca della autorizzazione del Comune di Perugia. Anche se nel merito, lo stesso TAR dell’Umbria, tra marzo e maggio 2017, confermerà invece la revoca delle autorizzazioni.
Alla Cooperativa arrivano diversi di messaggi di solidarietà. Tra i quali quello del Coordinamento nazionale comunità per minorenni del Presidente Giovanni Fulci che scrive: “Le accuse si fondano sull’accoglienza di minori che sono sottoposti a terapia sanitaria prescritta dai presidi sanitari di provenienza. Su questa tipologia di accoglienza in Italia esiste un vero vuoto legislativo, solo la regione Emilia Romagna ha normato strutture di natura psicosociali per minorenni, mentre esistono comunità terapeutiche esclusivamente sanitarie normate dalle Asl”. Insomma un vuoto legislativo che, ad esempio l’Umbria ha sanato solo alla fine del 2017.
L’inchiesta giudiziaria intanto prosegue
Gli inquirenti da una parte contestano il mancato possesso della autorizzazione a operare in campo sanitario; la cooperativa, dall’altra, si difende mostrando una nota della Regione dell’Umbria in cui viene individuata quale “soggetto titolare e gestore di comunità educativa a valenza terapeutica”, tanto da essere chiamata a far parte del gruppo di lavoro regionale per la definizione del processo di accreditamento di strutture dedicate ai minori che l’Umbria vuole prevedere nel rispetto dei vincoli della legislazione nazionale. Un documento ufficiale “senza padre né madre”, come lo definiscono i giudici, dal momento che il dirigente regionale che firma l’atto, pur riconoscendo la propria firma, affermerà candidamente di “aver sottoscritto superficialmente il documento, in realtà redatto da altra funzionaria” e riconoscendo “l’espressione impropria che sembra sottintendere una autorizzazione del Piccolo Carro a svolgere attività e servizi a valenza terapeutica quando si trattava di una comunità socio-educativa”. La funzionaria, sentita dai finanzieri, dichiarerà di non aver “mai redatto la nota”.
Su questo documento ‘ambiguo’ come pure sulla Carta dei servizi di cui era dotata la struttura, Servizi sociali e varie Asl d’Italia (in alcuni casi il Presidente di un Tribunale per minori) hanno inviato anche minori affetti da patologie cliniche presso le cooperativa umbra. Che Il Piccolo Carro si fosse nel tempo costruito una ottima reputazione emerge anche dagli interrogatori di alcuni dirigenti e medici. In un caso il responsabile del servizio ammette “che se fosse stato a conoscenza dell’assenza di autorizzazione sanitaria avrebbe proceduto ugualmente, anche a rischio di danno erariale”, in un altro gli operatori hanno riferito di aver inviato i ragazzi “sulle referenze di colleghi di altre regioni”. “Più che la qualifica specifica a noi interessava la competenza tecnica” ha dichiarato la responsabile di una Asl della Toscana. La coop d’altro canto vantava una equipe composta anche da un medico, psicologi, assistenti sociali e anche quando si trattava di somministrare farmaci, questi venivano prescritti solo dai medici delle strutture che inviavano e seguivano i ragazzi. “I gestori della Cooperativa” scrive il Gip “hanno maliziosamente taciuto agli interlocutori di non avere titolo ad accogliere minorenni con problematiche di tipo socio/sanitario ed hanno piuttosto enfatizzato la valenza terapeutica delle proprie competenze e del relativo supporto organizzativo facendo leva su referenze di provenienza apparentemente istituzionale”. Valutazione su cui anche il Riesame concorda: “gli enti collocanti, vuoi per negligenza, vuoi per risolvere concretamente situazioni oggettivamente problematiche concernenti la collocazione di minori in condizioni di vita critiche, non approfondivano particolarmente la questione della regolarità amministrativa delle strutture”.
Il sequestro preventivo
a complicare la già complessa vicenda arriva il 30 settembre 2017 la richiesta del Pm, riconosciuta dal Gip, di sequestro preventivo per oltre 6 milioni di euro di tutti i beni della coop e di quelli personali del legale rappresentante e del marito, anch’egli socio e dipendente del Piccolo Carro. Il Riesame riconosce la bontà del provvedimento, bocciato invece dalla Seconda Sezione della Corte di Cassazione presieduta da Piercamillo Davigo che annulla l’ordinanza e dispone il rinvio per nuovo esame del Tribunale del Riesame. E’ l’11 luglio 2018. Il blocco continuato dei conti correnti nel frattempo vede uscire dalla struttura anche gli ultimi educatori e amministrativi rimasti nella speranza di veder ripartire le attività. Nella struttura di Assisi restano solo Aristei e Salerno ad occuparsi, con ben pochi mezzi, degli ultimi 3 ragazzi che restano ancora a loro affidati. All’inizio di settembre 2018 le attività terminano definitivamente.
Cinque mesi esatti dopo, l’11 dicembre 2018, il Riesame di Perugia (Presidente Narducci, Giudice estensore Avenoso) riconosce che in almeno sei casi non emerge il fumus di condotte fraudolente da parte della Comunità, che resterebbe invece palese negli altri 8 episodi affrontati. Non solo. Non è possibile per il Collegio, sulla base delle risultanze esposte dai finanzieri di Assisi, “con riferimento alle posizioni ritenute a valenza fraudolenta, calcolare in detrazione con criteri oggettivi e certi, il vantaggio economico conseguito…si impone pertanto, vuoi per la ritenuta insussistenza del fumus con riferimento alle vicende del collocamento di minori da parte delle (6, n.d.r.) Asl – vuoi per la concreta impossibilità di calcolare l’effettivo vantaggio conseguito dai singoli minori sottoposti ad attività terapeutica all’interno di ciascuna struttura collocataria, nelle residue posizioni ritenute a valenza fraudolenta – l’annullamento dell’impugnato decreto di sequestro preventivo”. Il dispositivo viene pubblicato il 23 gennaio 2019 e un mese dopo il Pm Iannarone (che segue ora l’inchiesta) promuove immediatamente il dissequestro e dispone ai militari di notificarlo alle parti in causa. Al Piccolo Carro l’ordinanza arriverà solo a maggio scorso.
Lo Stato batte cassa
Quando tutto sembra ormai risolto, almeno per i dipendenti che attendono le proprie retribuzioni, ecco che a metterci lo zampino è l’Agenzia delle entrate e, immancabilmente le banche, che, anche dopo il dispositivo della Cassazione e persino del Riesame avanzano atti di pignoramento sui conti correnti ormai “scongelati”. “A quanto ci risulta” dicono i dipendenti “l’ammontare dissequestrato è pari a 1,2 milioni euro cui si sommano altri 1,3 milioni di crediti vantati dalla coop” dice un dei dipendenti che ha deciso di incontrare Tuttoggi “soldi sufficienti a liquidare le spettanze di tutti i dipendenti pari a 1,1 milione di euro”. La Comunità prima dell’inchiesta – questo almeno quanto sostengono i soci – aveva raggiunto un accordo con il fisco per 1,8 milioni di debiti da pagare in 36 rate mensili da 50mila euro. Con il blocco dei conti e il mancato pagamento delle rate concordate, il fisco è tornato a richiedere i 3,5 milioni originari del debito “divenuti nel frattempo, insieme agli interessi e non sappiamo a chissà quali altre sanzioni, più di 6 milioni”. Nonostante le diffide, enti e banche hanno continuato a presentare istanze di pignoramento. E non sembra finita neanche qui. Il fisco vorrebbe indietro anche ulteriori 7 milioni di Iva non regolarmente conteggiata dal momento che i servizi a “mutualità prevalente” devono essere corrisposti al 5%, gli altri alla normale percentuale del 22%: si tratta di una costola dell’inchiesta condotta dalle fiamme gialle della città serafica, basata anche questa sulla presunta truffa, per la quale ancora non si sa se ci saranno rinvii a giudizio ma che per il fisco, e non solo, sembra paradossalmente già verificata. Insomma, mentre lo Stato, nel senso della magistratura, deve ancora accertare se gli indagati meritano la qualifica di imputati e andare a processo, lo stesso Stato, nel senso del fisco, pretende tutto e al più presto.
Per i lavoratori c’è tempo.
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