Scrivere di Bob Wilson e del suo Hamletmachine diventa, oggi, difficile come scalare l’Everest con le forchette. Troppe le analisi, le valutazioni e le critiche ragionate succedutesi nel tempo dopo il suo primo debutto nel maggio del 1986. E tutte molto esaurienti, quasi senza appello.
In questo lavoro, il cui testo (non va dimenticato) è di Heiner Müller, Wilson mise in pratica in termini di regia, scene e luci, tutto ciò per cui oggi viene riconosciuto in ogni sua nuova produzione.
Si legge nel programma di sala, “Concepito nel 1977 dopo il primo viaggio in America dell’autore, Hamletmachine nasce originariamente dall’incontro tra Heiner Müller e Robert Wilson, venendo alla luce quasi nove anni più tardi.
L’amicizia tra Robert Wilson e lo scrittore della DDR Heiner Müller non fu solo leggendaria, ma anche estremamente produttiva: Müller scrisse testi per la Sezione Colonia di The Civil warS (1984), The Forest (1988) e La Mort de Molière (1994), e alcuni di questi vennero usati in Medea (1984), Alceste (1986) e Ocean Flight (1988).
Müller dichiarò successivamente che la versione di Hamletmachine concepita da Wilson fosse “il miglior spettacolo di sempre” nella sua intera carriera, celebrando l’opera per l’incredibile e innovativo impianto illuminotecnico e visivo e per la quasi totale assenza di interpretazione scenica. Elogiato da Gordon Rogoff nei suoi scritti come “un trionfo”, valse a Wilson un Obie Award come Miglior Regista.
La prima messa in scena risale al 7 maggio 1986 sul palcoscenico del teatro della New York University con la partecipazione degli allievi stessi; la versione tedesca segna invece il suo debutto il 4 ottobre dello stesso anno alla Kunsthalle di Amburgo.”
Lo spettacolo non è stato più ripreso da allora, e ritorna in scena quindi dopo ben trentuno anni grazie al Festival dei Due Mondi di Spoleto.
Hamletmachine a Spoleto
Ma cos’è dunque che rende unica ed eccezionale questa ripresa spoletina dell’opera wilsoniana. Sicuramente il coinvolgimento dei giovani studenti dell’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”.
Dopo l’esperienza newyorkese dell’86, Wilson si è nuovamente dedicato alla guida dei giovani talenti di una importante scuola d’arte come l’Accademia.
Non è sempre scontato che un grande regista di fama internazionale, che Giorgio Ferrara non smette mai di incoronare come il più importante di questo tempo, sia disponibile a fare da maestro ai dei giovanissimi attori ancora privi della necessaria esperienza.
Il compito, nel caso specifico di Hamletmachine, diventa sperimentazione pura poiché aldilà del testo, gli attori devono diventare letteralmente dei “non attori”. Chiunque avrà la voglia ed anche la fortuna di poter vedere in questo ultimo fine settimana di Festival, la ripresa spoletina di Hamletmachine, non potrà non accorgersi di come Wilson trasformi i giovani accademici in macchine di scena, sorta di automi dal vago sentore pubblicitario, come nelle immagini americane degli anni ’50.
Una sofisticatissima amplificazione, rende diverso qualsiasi suono di scena, dalla voce ad ogni tipo di rumore o musica, trasformato dunque in “attore” al pari dell’umano dialogante.
Le luci di scena, come sempre in Wilson, diventano scrittura e ogni minuto di rappresentazione è strettamente regolato da una luce o un progetto di luce particolare e diverso. Quasi un secondo testo da rappresentare.
Altra eccezionalità è poi la capacità di trasformare un luogo non semplice, come la sala conferenze del Complesso monumentale di S.Nicolò, in un teatro delizioso e funzionale come non se ne vedevano da tempo. Dal che se ne deduce che ogni messa in scena di Wilson è sempre una operazione totalizzante, di completa trasformazione. Uno spazio non è più lo stesso ne si adatta. È il Teatro di Bob Wilson, ne più ne meno. Fantastico quando nella 4^ scena (in tutto sono 5 le scene o atti o sequenze che dir si voglia dell’opera), Wilson rovescia il campo visivo (con 2-3 semplici movimenti) in modo tale da dare la sensazione allo spettatore di trovarsi opposto rispetto al proscenio.
Non ci dilungheremo su cosa racconta Hamletmachine, poiché i testi del programma di sala offerti dal Festival sono esaurienti e chiari (CLICCA QUI) e non occorre nessuna chiosa giornalistica che in questo caso sarebbe solo presunzione pura .
Ci interessa però sottolineare un rimando immaginifico, quasi un sogno o una ipotesi di lavoro, che questo “antico” lavoro di Wilson ci ha suggerito proprio mentre eravamo a teatro. Nei lontani, ormai, anni’60 un folle (o per qualcuno genio) del teatro, Carmelo Bene, si dedicò in più riprese alla figura di Amleto, mutuando la sua esperienza dagli insegnamenti di Jules Laforgue. Quel lavoro, plasticamente ripreso e rimaneggiato anche in un film dello stesso Bene, Un Amleto di meno del 1973, mostra singolari analogie con il tipo di impostazione scenica e recitativa di Wilson. La parola trasformata o riscritta, la ripetizione, a tratti ossessiva o minuziosamente variata, le luci e persino l’amplificazione che fu per Carmelo Bene l’elemento distintivo del suo essere-non essere in scena. Lo stesso argomento dell’assenza dell’attore è un sintomo di come i due si sarebbero potuti “annusare” in altre condizioni. Tutti concetti che saranno ancor più evidenti nel Pinocchio televisivo degli anni’ 90 (se ne trova una magnifica registrazione integrale in rete), dove le similitudini si fanno ancora più evidenti.
Ci conforta in questa idea l’analisi di H. Rischbieter, Theater heute, scritta nell’ottobre 1986, e pubblicata anche questa nel programma di sala di Hamletmachine, “…Wilson consente alla parola parlata di essere ascoltata e capita. Il testo di Müller raggiunge gli spettatori attraversando un intenso paesaggio sonoro, così da rendere difficile la comprensione di cosa accada realmente in palcoscenico e cosa invece sia parte di una traccia sonora registrata. Raramente gli attori recitano liberamente senza distorsioni sonore. L’opera non si manifesta unicamente visivamente ma piuttosto acusticamente, con un’estrema chiarezza e plasticità.”.
Infine un grande applauso, scrosciante come quello del pubblico di S.Nicolò e durato ben oltre 5 minuti, va ai 14 giovanissimi studenti-attori dell’Accademia Silvio D’Amico, messi a dura prova dall’esigente regista texano. La loro prova inorgoglisce e va oltre il valore assoluto di ciò per cui si sono ritrovati in scena. Immaginiamo solo parzialmente cosa possa significare per loro essere stati allievi e “strumento” di Bob Wilson. Ecco i loro nomi: Liliana Bottone, Grazia Capraro, Irene Ciani, Gabriele Cicirello, Renato Civello, Francesco Cotroneo, Angelo Galdi, Alice Generali, Adalgisa Manfrida, Paolo Marconi, Eugenio Mastrandrea, Michele Ragno, Camilla Tagliaferri, Luca Vassos, Barbara Venturato.
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Foto: Fondazione Festival