Partendo dalla sua Palermo, dai suoi ricordi di Paolo Borsellino e di Pino Puglisi, dalla storia del piccolo Giuseppe di Matteo
Dopo il successo di Italia – Brasile 3 a 2. Il ritorno, con il quale aveva festeggiato a Spoleto i vent’anni di carriera nel 2022, Davide Enia è atteso con il suo nuovo spettacolo Autoritratto, coprodotto da CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli-Venezia Giulia, Piccolo Teatro di Milano, Accademia Perduta Romagna Teatri e Festival dei Due Mondi con il patrocinio della Fondazione Falcone. Enia parte dalla “sua” Palermo e dalla storia del piccolo Giuseppe di Matteo – figlio di un collaboratore di giustizia rapito e ucciso da Cosa Nostra –, una storia in cui la mafia è specchio della realtà familiare.
Un processo di autoanalisi guidato dall’intenzione di «non volere capire in assoluto la mafia in sé, quanto cercare di comprendere la mafia in me». Come sempre succede per i suoi spettacoli, il punto di partenza è lo studio della realtà, consultando archivi e documenti storici, interrogando persone che ai fatti sono state vicine, guardando fotografie, – con la collaborazione di tre ex-funzionari dell’Antimafia in pensione, che lo aiutano a percorrere le sterminate pagine processuali –, e infine scavando nella propria memoria e nelle proprie esperienze. Enia racconta: «In una culla culturale in cui “a megghiu parola è chìdda ca ‘un si dice”, la miglior parola è quella non detta, che si configura come prima soglia dell’omertà, affrontare per davvero Cosa Nostra significa iniziare un processo di autoanalisi. A Palermo tutti quanti abbiamo pochissimi gradi di separazione con Cosa Nostra. Il primo morto ammazzato l’ho visto a otto anni, tornando a casa da scuola. Conoscevo il giudice Borsellino, abitava di fronte casa nostra, sono cresciuto giocando a calcio con suo figlio. E padre Pino Puglisi, il sacerdote ucciso dalla mafia, era il mio professore di religione al liceo».
Enia prende in esame un caso particolare, un vero e proprio spartiacque nella coscienza collettiva: il rapimento e l’omicidio di Giuseppe di Matteo, il bambino figlio di un collaboratore di giustizia, rapito, tenuto per 778 giorni in prigionia in condizioni spaventose e infine ucciso per strangolamento per poi venire sciolto nell’acido. Una storia disumana che si configura come l’apparizione del male.
Enia continua: «In Sicilia praticamente tutti abbiamo avuto, almeno fino alle stragi, un rapporto di pura nevrosi con Cosa Nostra. È un discorso che ha a che fare con la coscienza collettiva condivisa, con la pratica del quotidiano, con strutture di pensiero millenarie. Per diverse ragioni, da noi la mafia è stata minimizzata, sottostimata, banalizzata, rimossa o, al contrario, mitizzata. Ovvero: non è mai stata affrontata per quello che è. E, a questo sfocamento dell’oggetto da studiare, è corrisposta una inconscia introiezione di quelle identiche modalità di comportamento, stesse pratiche, simili scatti emotivi».
Enia scava a fondo in una realtà in cui la mafia rappresenta uno specchio della vita familiare, dei processi decisionali e operativi, del modo di osservare il mondo e intendere le relazioni, del rapporto con la religione. Una «nevrosi collettiva» da affrontare, sviscerare e con cui finalmente fare i conti.