La premiazione in Prefettura a Perugia nel giorno della Giornata della Memoria, ha ritirato il riconoscimento il figlio Davide
Matricola numero 164049. Campo di lavoro 6133, Stalag XI B a Fallingbostel, Bassa Sassonia. Paolo Calandrini ha 23 anni quando viene richiamato alle armi. Incarico da mitragliere, sesto battaglione di corpo d’armata di Bologna. E’ in servizio a Ragusa quando, l’8 settembre, insieme ai suoi compagni si consegna ai tedeschi che lo portano nel lager XI B.
“Non parlava mai degli anni di prigionia”
“Papà non ha mai parlato volentieri degli anni della prigionia. Se glielo chiedevamo girava la testa e parlava d’altro” spiega Davide Calandrini, figlio di Paolo, che ieri mattina (mercoledì 27 gennaio) in Prefettura, a Perugia, ha ritirato la medaglia d’onore in memoria di suo padre concessa dal Presidente della Repubblica e consegnata dal vicesindaco di Gubbio Alessia Tasso.
Paolo nel lager
Paolo Calandrini venne rinchiuso nel campo di concentramento Stalag XI B, originariamente costruito come alloggio per lavoratori e, successivamente, recintato e riconvertito. Verso la fine del 1939 al campo arrivarono i primi prigionieri polacchi, seguiti, l’anno successivo, da francesi e belgi. Alla fine del 1940 risultavano registrati nello Stalag XI B circa 40.000 prigionieri, anche se solo 2.500 di questi erano alloggiati lì, mentre la maggioranza era assegnata ai vari campi di lavoro, o alle fabbriche distribuite nella zona.
Il lavoro in fonderia e gli stenti
Anche Calandrini viene messo a lavorare in una fonderia, una fabbrica metallurgica riconvertita per la produzione di materiale bellico. “Lo pagavano, addirittura – racconta Davide – con una moneta che non abbiamo mai saputo quale fosse, anche perché papà non la convertì mai, dato che quando liberarono il campo pensò solo a riportare a casa la pelle, senza curarsi di nessun’altra cosa”.
Calandrini, in Germania, vive con altre decine e decine di prigionieri le stesse durissime condizioni: fame, freddo, fatica estrema. L’affollamento del campo contribuiva a creare condizioni igienico-sanitarie ai limiti, che negli anni aggiunsero un’epidemia di tifo che causò molti decessi tra i prigionieri. “Non avevano praticamente nulla da mangiare: papà, quando da piccolo non volevo mai sedermi a pranzo, mi diceva che di notte fuggiva dal campo rischiando la vita per andare a rubare le bucce di patate ai maiali”.
Le cugine non lo riconoscono e gli chiudono la porta in faccia
Il 16 aprile 1945 il campo viene finalmente liberato: Paolo Calandrini torna a casa ad agosto, percorrendo a piedi gran parte del percorso, e la restante con mezzi di fortuna o passaggi. Si ferma a Pesaro, dove vivono le sue cugine, cercando ristoro e riposo: gli viene chiusa la porta in faccia, perché non lo riconoscono. E’ troppo magro, deperito, sofferente.
“Papà ha visto morire tanti dei suoi compagni – racconta il figlio Davide – lui ebbe la forza di riprendersi e ricominciare a vivere, ma non ebbe mai voglia di raccontare. Pezzi di racconti, aneddoti estemporanei, ma nulla di più. Ho provato insieme a mia sorella a ricostruire passaggi e vicissitudini, specie ora che non c’è più, perché la sua memoria non vada perduta”.
Le parole del sindaco
“Un riconoscimento necessario, una storia da continuare a raccontare – sottolinea anche il sindaco Filippo Stirati – affinché la memoria familiare divenga memoria collettiva, quale possibilità di nutrimento e collante della comunità. Al signor Calandrini e a tutti i protagonisti di quei tragici avvenimenti va restituita non solo la memoria, ma anche l’impegno affinché tragedie simili non abbiano a ripetersi”.