La lingua, la musica e la cultura Yiddish, quell’inafferrabile miscuglio di tedesco, ebraico, polacco, russo, ucraino e romeno, la condizione universale dell’Ebreo errante, il suo essere senza patria sempre e comunque, sono al centro di “Cabaret Yiddish” spettacolo da camera da cui è poi derivato il più celebre Oylem Goylem.
Cabaret Yiddish, di e con Moni Ovadia è stato protagonista ieri, 27 dicembre, di un pienone straordinario al Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti, in occasione dell’ormai tradizionale appuntamento natalizio con il Festival dei Due Mondi di Spoleto.
In apertura di sipario il consueto saluto augurale del Direttore artistico, Giorgio Ferrara e del sindaco e Presidente della Fondazione, Umberto de Augustinis, entrambi molto soddisfatti della nutrita presenza di pubblico, molta parte del quale per la verità non spoletino, che ha tributato allo spettacolo calorosi applausi.
Il delizioso Cabaret Yiddish di Moni Ovadia ha la forma classica del cabaret comunemente inteso. Alterna infatti brani musicali e canti a storielle, aneddoti, citazioni che la comprovata abilità dell’intrattenitore-attore sa rendere gustosamente vivaci. L’uso della voce e la deformazione della stessa in scilinguagnoli onomatopeici divertenti, trasporta il pubblico in ambientazioni lontane nel tempo ma anche sorprendentemente attuali per la natura dei rapporti umani rappresentati. Come nel caso dell’esilarante racconto sulla “Yiddish Mami”, ovvero la mamma ebrea Yiddish, una sorta di elemento mitologico, a metà tra la disavventura umana, il destino beffardo e lo sconfinato amore, possessivo. Il pubblico ride di gusto al Teatro Nuovo. O la spiegazione sui numerosi luoghi comuni come il naso grande degli ebrei o la loro straordinaria abilità nel commercio, e nella gestione del denaro.
La curiosità intrigante dello spettacolo sta nel fatto di essere interamente dedicato a quella parte di cultura ebraica di cui lo Yiddish è la lingua e il Klezmer la musica.
Uno spettacolo che “sa di steppe e di retrobotteghe, di strade e di sinagoghe”. Tutto questo è ciò che Moni Ovadia chiama “il suono dell’esilio, la musica della dispersione”: in una parola della diaspora.
La musica Klezmer deriva dalle parole ebraiche Kley Zemer, che si riferiscono agli strumenti musicali (violino ed archi in genere e clarinetto) con cui si suonava la musica tradizionale degli Ebrei dell’est europeo a partire all’incirca dal XVI secolo.
Protagonisti in questo caso i bravissimi musicisti che accompagnano Ovadia in questa intima avventura teatrale in giro per i teatri d’Italia, al Violino-Maurizio Dehò, al Clarinetto- Paolo Rocca, alla Fisarmonica- Albert Florian Mihai e al Contrabbasso- Luca Garlaschelli
Per altro Garlaschelli e Rocca sono anche vecchie e gradite conoscenze umbre, già protagonisti di alcune fortunate edizioni della Festa Europea della Musica di Todi.
Moni Ovadia si trasforma a Spoleto in una sorta di ieratico Rabi (il Rabbino), capo della comunità degli spettatori del Teatro Nuovo e con sapienza e dotta conoscenza, legge, racconta e canta il senso dell’esilio e della peregrinazione del popolo ebreo che non ha, e forse non avrà mai, uno Stato. Non è infatti un mistero, l’avversione critica di Ovadia per il sionismo, sopratutto, per quel modo di fare politica in Israele negli ultimi decenni. Ma detto questo, rimane intatta la disarmante disponibilità e generosità del protagonista, che al termine dello spettacolo, come ogni buon padre di famiglia, un Rabi scrupoloso, benedice il pubblico spoletino e lo ringrazia. Contraccambiato da convinti applausi.
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Video e foto di Tuttoggi.info (Carlo Vantaggioli)