Jacopo Brugalossi
Bob Wilson, Mikhail Baryshnikov, Willem Dafoe. E’ un assoluto tris d’assi il protagonista dello spettacolo teatrale più atteso dell’ultimo week end di Spoleto 56. Arcinota, ormai, la stima professionale che il direttore artistico del Festival dei 2 Mondi Giorgio Ferrara nutre nei confronti del regista e drammaturgo statunitense, chiamato quest’anno a mettere in scena una delle opere più cupe ed enigmatiche dello scrittore russo Daniil Kharms, nato a San Pietroburgo nel 1905 e perseguitato dal regime stalinista fin quando trovò la morte nei gulag a soli 36 anni.
In “The old woman” rivivono tutti i tormenti di Kharms, nella persona di uno scrittore che non riesce a trovare pace con se stesso, oppresso dall’immobile ingombro del cadavere di una vecchia signora per cui il tempo non passa mai (sono sempre le 3 meno un quarto) che simboleggia, forse, la stessa Unione Sovietica.
Che ci si trovi di fronte ad un pezzo di teatro dell’assurdo lo si capisce già da come irrompono sulla scena i due protagonisti: bianchi in viso, con gli occhi cerchiati di nero e un improbabile ciuffo a trivella in testa. Difficile, per la verità, cogliere un nesso logico nella storia. Ma è qui che entra in gioco il genio di Wilson, che cattura l’attenzione del pubblico curando in modo maniacale e innovativo gli elementi di scena. I personaggi che iniziano il loro dialoghi sospesi a mezz’aria su una altalena, porte e finestre che entrano dall’alto e rimangono a fluttuare nel nulla fino a quando, improvvisamente, scompaiono. Una scenografia, va detto, sempre essenziale, composta da oggetti di design che sembrano sculture, come il letto spezzato al centro su cui lo scrittore sfoga i suoi tormenti o la sedia-trono dove invece sembra rinsavire.
Magistrali, poi, i giochi di luce. Fasci luminosi verdi, rossi, bianchi e azzurri illuminano gli attori e gli elementi scenici in modo del tutto imprevedibile. Si ha quasi l’impressione che i visi dei protagonisti, così come gli oggetti, non siano semplicemente illuminati, bensì ricoperti di colore. Un vero e proprio concerto cromatico. Non secondario, inoltre, l’impatto della musica: una scena davvero godibile quella in cui i personaggi attendono un treno (4 led luminosi disposti a terra uno dopo l’altro formano le rotaie) sulle note di “I’ll be home” di Harry Nilsson.
Loro, Baryshnikov e Dafoe, sono dei mostri di bravura. Dominano la scena con incredibile versatilità, alternando momenti soft, quasi romantici, ad altri più crudi ed inquietanti. Recitano da seduti, sdraiati, in piedi, nella loro lingua madre, ripetendo lo stesso dialogo più e più volte, ognuna con un diverso timbro di voce e sotto un nuovo gioco di luci. Esasperanti, per lo spettatore, alcuni passaggi della performance, come quello in cui i protagonisti non riescono a ricordare se dopo il 6 viene il 7 o l’8. Quasi nel panico per questa terribile dimenticanza, gridano e sbraitano con tale forza empatica da trascinare anche il pubblico nella loro spirale di oblio. Dopo un’ora e mezza di spettacolo senza alcuna interruzione, i due protagonisti sembrano tornati al punto d’inizio. La vecchia signora ha ancora in mano un orologio senza lancette, ma sa perfettamente che ore sono: le tre meno un quarto.
Il Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti, pieno ma non “tutto esaurito” per la prima, può finalmente esplodere in un lungo e fragoroso applauso, tributando agli attori, ed implicitamente anche al regista, una meritata standing ovation.
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