Serata da intenditori quella di ieri al Santa Giuliana per Umbria Jazz16. Apertura con l’atteso trio Mehldau-Scofield-Guiliana, definito già da molti come il supergruppo del 2016. John Scofield e Brad Mehldau sono senza dubbio beniamini del pubblico di UJ e con alle spalle tantissime partecipazioni alla kermesse umbra. Al punto che Mehldau ha costruito quasi metà del successo della sua carriera sui palcoscenici perugini. Per il batterista Mark Guiliana invece si tratta di una eccezionale premiere dopo il successo internazionale seguito anche alla sua collaborazione nell’album-testamento di David Bowie Blackstar. Di Scofield si è perso il conto delle partecipazioni individuali e non a UJ. Dunque massima concentrazione all’arena Santa Giuliana per una proposta musicale tutta da scoprire e sopratutto capire.
In realtà i brani eseguiti sono parte del repertorio personale di Mehldau e Scofield, ma è come vengono riarrangiati che suscita curiosità. Molta elettronica in più su temi che sono magari nati con una timbrica diversa, per un diverso ascolto. Forse sta in questo la novità, negli intrecci elettroacustici su brani “diversi”, ma con il rispetto e l’intesa che i musicisti costruiscono tra loro, anche personalmente nel corso degli anni. L’intesa è il collante della performance vista ed ascoltata al Santa Giuliana e l’uso dell’elettronica ha solo amplificato la bravura degli artisti. Mehldau ispirato ed onirico gioca molto con basi ritmiche sostanziose e lascia meno spazio all’improvvisazione. A tratti si sentono echi lontani di Zawinul, dei Weather Report e della Elektric Band di Chic Corea.
Scofield ne ha viste più di Carlo in Francia. La sua esperienza è monumentale eppure ogni volta che lo si rivede su un palco, anno dopo anno, ha sempre qualcosa di nuovo da proporre. Certo, al fondo dei suoi magistrali fraseggi rimane sempre la base blues e fusion, ma nel caso di ieri sera i riff avevano qualcosa di volutamente “non detto”, come se si fosse scelto di lasciarli a mezz’aria per farli immaginare al pubblico.
Poderosa e miracolosa la performance di Guiliana che non lascia dubbi sul perchè il disco di Bowie, Blackstar, viene considerato un lavoro fortemente venato di jazz. Nessun tradimento dell’aspettativa musicale al Santa Giuliana e tanti applausi per il trio delle meraviglie.
Nessun applauso invece per la consueta e ormai davvero paranoica, volontà di escludere i fotografi accreditati dalle riprese sacrosante dei 3-5 minuti in forza del diritto di cronaca. Gli artisti, qualunque sia la loro grandezza, non hanno più scusanti nell’era di Youtube e Facebook, e rischiano di essere considerati tutti emuli del “patologico” Keith Jarrett (CLICCA QUI). Ma chi davvero non ha scusanti sono gli organizzatori di qualunque genere (molti casi analoghi si sono verificati anche al Festival dei Due Mondi di quest’anno), che non vogliono spiegare agli artisti il rispetto che si deve a coloro che lavorano per l’informazione, sopratutto quando si viene ad offrire la propria arte per soldi. Deve essere chiaro che gli orecchini al naso ormai ce li mettiamo solo per divertimento.
Performance attesissima anche quella di Kamasi Washington e del suo consueto gruppo-famiglia con il quale l’artista di Los Angeles gira il mondo. Alla sua prima volta ad Umbria Jazz, Washington si è presentato con una formazione appena ridotta nella sezione tastiere e fiati ma con la tradizionale poderosa ritmica affidata a due batterie e al contrabbassista funambolo Abraham Mosley. In formazione anche il papà di Kamasi, Rickey Washington, al flauto.
Questo artista di peso, in tutti i sensi, è riuscito negli ultimi due anni a dividere la critica e gli appassionati del genere black music grazie al suo ultimo lavoro prodotto The Epic (prima di questo ha all’attivo altri 3 dischi autoprodotti). The Epic è un lavoro poderoso composto da tre cd, in cui Washington ce la mette tutta per ricostruire un contesto in cui il suono “nero” abbia la sua dignità originale. Per produrre i 170 minuti del triplo cd, ci sono anche voluti una intera sezione di archi e un coro di 20 persone. Più che epico, colossale diremmo. Per chi non ha dimestichezza con la presenza fisica di Kamasi sul palco e con il pittoresco gruppo che lo segue (Rickey Washington Flute/Soprano Sax, Antonio Austin Drums, Ryan Porter Trombone, Abraham Mosley Upright Bass, Brandon Coleman Keys, Ronald Bruner Jr Drums. Fantastica la cantante Patrice Quinn, che sembra sempre essere in preda all’estasi), l’idea meno lontana dal vero è la somiglianza con la famosa Arkestra di Sun Ra, di cui si sente molto anche l’influenza musicale qua e la in The Epic.
E la performance di ieri sera al Santa Giuliana si è basata quasi tutta su The Epic, quasi una missione per Washington, oltre che una sicurezza. Lo schema dell’esibizione è il più classico che c’è, introduzione del tema, spazio alle indiavolate performance dei musicisti a turno, e ripresa del tema per poi passare alla chiusura. Tutto molto chiaro e semplice e a volume di suono decisamente alto. Insomma si sente che ci sono sul palco e che hanno voglia di suonare.
Rimane intatto il dubbio se il lavoro di Kamasi è una provocazione ultraterrena o se davvero c’è dentro tutto di ogni genere possibile, riamalgamato e lavorato in un continuo tentativo di disorientare l’ascoltatore, ponendolo nella condizione di non avere riferimenti precisi. Nudi alla meta.
Indubbiamente un concerto atteso perchè aldilà delle discussioni di merito o delle critiche rimane il valore della proposta in se, che è riuscita a creare una discussione sul modo di “parlare” di jazz.
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Foto: Tuttoggi.info (Carlo Vantaggioli)