Spoleto65, il "vorrei ma non posso" di Luz Arcas in "Tonà" - Tuttoggi.info

Spoleto65, il “vorrei ma non posso” di Luz Arcas in “Tonà”

Carlo Vantaggioli

Spoleto65, il “vorrei ma non posso” di Luz Arcas in “Tonà”

Dom, 10/07/2022 - 10:17

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Apprezzabile il grande lavoro introspettivo dell'autrice, lavoro che costa in scena anche una discreta fatica fisica. Bene la musica live

Sta diventando quasi un vizio! Ma mettere a confronto i testi dei libretti di sala con l’esperienza vissuta realmente a teatro è qualcosa che illumina la scena artistica in maniera così netta, quasi si trattasse del celebre “occhio di bue”.

L’ultimo spettacolo di Spoleto65 (in chiusura questa sera con l’atteso concerto finale diretto da Antonio Pappano) al quale abbiamo avuto la possibilità di assistere è Tonà della coreografa, danzatrice e performer, Luz Arcas.

All’auditorium della Stella , in uno spazio rinnovato e davvero molto confortevole, va in scena una performance di danza, musica e canto eseguiti dal vivo, con un lungo assolo della stessa Luz Arcas, fondatrice della compagnia La Phàrmaco. Una coreografia che come spiegato appunto nel libretto di sala dalla stessa Arcas, nasce “durante i viaggi a Malaga per visitare mio padre, che era molto malato. Nella sua casa, dove sono cresciuta, ho riscoperto riferimenti, icone, simboli che avevo quasi dimenticato. Ho ricordato aneddoti e paure, ricollegandomi al folklore della mia infanzia. Ho voluto danzare un sentimento che è tipico di quel folklore: la morte come celebrazione della vita e catarsi individuale e collettiva”.

Tradizione e simboli …da sporcare

Luz Arcas vorrebbe incarnare a suo modo quello spirito sempre sospeso tra morte e vita che è stato grande ispiratore del Flamenco. E non a caso uno dei passi visti alla Stella e che può essere senza dubbio l’anello di congiunzione con l’esperienza del ricordo, è il tentativo di replicare i passi battenti di flamenco (Golpe, Planta, Tàcon etc…) a piedi nudi sul palcoscenico amplificato. Un suono che torna indietro al pubblico smorzato quasi sordo e sicuramente non squillante come si otterrebbe con le calzature tradizionali.

Per il resto, a cominciare dalla musica originale di Luz Prado, i costumi, e la energica voce di Lola Dolores, la performance di Luz Arcas tenta di trasmettere lo stato di inquietudine dell’autrice che trasforma attraverso il movimento scenico, versato all’oblio della tradizione, una serie di impronte sedimentate nel profondo della coscienza individuale.

Si legge ancora nel programma di sala, “La performance nasce dalla necessità di incarnare un’identità che non pretende di definirsi, legata organicamente alla memoria collettiva e all’immaginario popolare, con tutti i suoi conflitti. Una poesia che trasmette la carne, il polso vitale, piena di rabbia e di gioia, ma anche di pregiudizi e superstizioni. Un dolore antico e fertile che ci forma lentamente, fin dall’infanzia. Un corpo riconciliato con le sue forze vitali, intrecciato con la malattia, la vecchiaia, la morte, e che si rapporta sfacciatamente ai simboli, per sporcarli, calpestarli, rinominarli, mentre grida: sono nostri, ci appartengono.”

Di tutto questo va sicuramente apprezzato il grande lavoro introspettivo dell’autrice, lavoro che costa in scena anche una discreta fatica fisica.

Tuttavia è poco convincente il tentativo di catarsi, se questo è lo scopo principale come sembra emergere dai testi del programma di sala.

Vorrei ma non posso

Il “vorrei ma non posso” è invece la cifra più evidente di ciò che abbiamo potuto vedere All’Auditorium. Vorrei liberarmi ma non posso perchè sono profondamente imbevuta di tradizione.

Al massimo posso provare a storpiarla. E se questo accade in uno spettacolo teatrale, il disorientamento può essere pernicioso o illuminante. Sarebbe stato meglio una riscrittura totale in senso drammaturgico.

Nel nostro caso non è stato ne pernicioso e men che meno illuminante. Lasciatecelo dire, è stata una operazione inutile!

Tutto rimanda alle origini, nella performance di Luz Arcas e lo smozzicamento della narrazione per dare spazio come si dice sopra ad “Un corpo riconciliato con le sue forze vitali, intrecciato con la malattia, la vecchiaia, la morte, e che si rapporta sfacciatamente ai simboli, per sporcarli”, a noi francamente fa venire sintomi simili alla peronospera delle piante.

Forse perchè ci avviciniamo velocemente alla fase finale di una vita, troviamo insopportabile il sentimento del rimpianto e la necessità di distaccarsi da qualcosa che ha a che fare con la memoria. Sarà che nella nostra concezione il ricordo immateriale è fonte di vita e come tale non va nemmeno sprecato, soprattutto per sporcarlo come un qualsiasi monumento imbrattato.

Ancora una volta ci troviamo di fronte ad uno spettacolo di Spoleto65 che mostra una buona dose di presunzione. E lo diciamo con il massimo rispetto per le motivazioni che spingono l’artista a esprimersi.

Infine abbiamo la sensazione che nella programmazione della danza di questa edizione, qualcuno si sia fatta prendere un po’ la mano nella scelta di alcune proposte.

Lo abbiamo già scritto, ma Spoleto si merita degli spettacoli che siano come abiti sartoriali, tagliati su misura, e dunque non tutto quello che si trova in giro per il mondo è definitivamente adatto per il Festival che, non va mai dimenticato, è anche veicolo di proposta internazionale proprio in forza del suo marchio originario di fabbrica.

Apprezzabile invece la costruzione dello spettacolo con la musica dal vivo.

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