(Carlo Vantaggioli)– Nel programma di sala di Spoleto57 che introduce The Dubliners- The Dead part 1, è lo stesso regista Giancarlo Sepe a spiegare al pubblico che, “L’anima della ricerca, secondo me, è proprio legata allo spazio scenico che ne condiziona ritmi e visioni, e certamente la meravigliosa chiesa di San Salvatore avrà la sua parte in questo allestimento. Niente palcoscenico come solo riferimento visivo, niente tribuna per il pubblico, solo una sorta di itinerario virtuoso che farà incontrare tutti i personaggi di Joyce come in una lunga panoramica, dove conosceremo le famose Epifanie dell’autore”.
Ed è proprio abbandonandosi alla visione e alla percezione di ciò che accade a San Salvatore, sin dall’ingresso nella basilica, che è già parte della predisposizione interiore dello spettatore secondo la regia, che si può meglio apprezzare il lavoro di Giancarlo Sepe.
In James Joyce, simboli e archetipi sono elementi fondanti della scrittura, e uno di questi, l’epifania, è un’improvvisa rivelazione spirituale causata da un gesto, un oggetto, o situazioni quotidiane banali che il protagonista sperimenta in un momento di crisi e che si rivela di importanza fondamentale nella sua vita.
In The Dubliners, Joyce, attraverso 15 racconti, intende attirare l’attenzione su due concetti fondamentali dell’essere dei protagonisti: la paralisi e la fuga. L’una dipende dall’altra e molto spesso entrambe non portano da nessuna parte se non in una immobilità concettuale. Non è un caso che il 15° racconto, considerato anche come l’epilogo del testo è proprio The Dead (I Morti).
Nel lavoro di Giancarlo Sepe però, sembra baluginare a distanza una fiammella di speranza che qualcosa torni a muoversi, perchè come dice anche James Joyce, alla fine “i morti sono più vivi dei vivi, loro hanno lottato fino all’ultimo…”.
Ed ha un suo fascino, il modo in cui il regista costruisce questo complesso contesto simbolico, posizionandolo proprio dentro alla Basilica langobardiana di San Salvatore. L’uso sapiente delle luci ma sopratutto della proiezione delle ombre, la musica costante ed il canto, la fisicità degli attori, persino il “lusco e brusco” della nebbiolina, presenza costante per tutta la durata della pièce, stupisce e disorienta un pubblico che di fronte ad una tale massa di informazioni non può che avere la sua personale epifania.
Una sorta di Blade Runner teatrale in cui persino i morti joyciani che si risvegliano al suono di una musica tradizionale sembrano avere gli stessi sussulti che gli automi Nexus6 del famoso film hanno, al contrario, un attimo prima di terminare le loro funzioni, lottando fino all’ultimo per non abbandonare il loro involucro.
Del resto Giancarlo Sepe ha studiato a lungo il rapporto fra testo non drammaturgico e narrazione scenica arrivando poi negli anni ad un serio approfondimento sull’interazione tra parola e gesto.
Un suo spettacolo quindi ha tratti stilistici definiti ma che vanno scovati nel corso della rappresentazione. Il motivo per cui è bello e non scontato assistere ad una sua nuova messa in scena.
Bravi tutti gli attori, Giulia Adami, Lucia Bianchi, Paolo Camilli, Federico Citracca, Manuel D’Amario, Enrico Grimaldi, Ivan Marcantoni, Annarita Marino, Bruno Monico da Melfi, Caterina Pontrandolfo, Giannina Raspini, Federica Stefanelli, Guido Targetti, e l’icona Pino Tufillaro, nella pièce, il “celebrante” del rito epifanico joyciano.
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Foto di Niccolò Perini – Video a cura di Tuttoggi.info