Al Romano, finalmente popolato come si conviene, e profumato di mentuccia la straordinaria testimonianza di Astral Converted
Si può dire ciò che si vuole circa bellezza, bruttezza e vari altri giudizi, ma oggettivamente quello andato in scena ieri, 2 luglio, al Teatro Romano è un vero pezzo di storia del balletto.
Gli elementi della oggettività sullo stesso dovrebbero essere necessari e sufficienti per acquietare ogni eventuale discussione sulla soggettività del cosiddetto “Bello” o “Brutto” come anche dal solito “mi piace” o anche peggio “non è più il Festival di Menotti”!
Stiamo parlando della replica di Astral Converted e Working Title coreografati da Trisha Brown, vecchia conoscenza festivaliera scomparsa nel 2017.
Soprattutto nel caso di Astral Converted, non si può prescindere dalle “astrali” collaborazioni quali quelle dei costumi di Robert Rauschenberg, e i suoni tonali di Eight di John Cage.
Poi, come sempre, è difficile spiegare ad un pubblico largamente eterogeneo come quello di questa 65esima edizione affascinato delle tante promozioni al botteghino che l’organizzazione festivaliera sta mettendo in campo (anche in maniera discutibile) per andare a teatro, che Trisha Brown non è una coreografa come tante ne vengono offerte al pubblico, soprattutto televisivo.
Senza dilungarsi troppo, e costretti dal fatto che spesso il pubblico di frequentatori degli ultimi anni del Festival, accetta di prendere il libretto di sala all’ingresso per sventolarsi, causa calore, e non per leggere alcune notizie fondamentali. segnaliamo alcuni dettagli la cui mancata conoscenza diventerebbe esiziale.
La Brown è stata una delle fondatrici della danza Postmoderna e la sua formazione artistica è stata una avventura spettacolare tutta racchiusa in una manciata di anni tra i ’60 e quasi tutti i ’70, con artisti quali Merce Cunningham e John Cage, Twyla Tharp e Lucinda Childs e molti altri ancora.
Tanto per ribadire sia Cunningham che la Tharp e la Childs sono stati a Spoleto a più riprese dai primi festival menottiani e al più recente a conduzione Giorgio Ferrara. Dunque una artista non proprio sconosciuta soprattutto in un contesto (la città di Spoleto) dove invece certe presenze artistiche andrebbero curate come medaglie al valore da esporre.
Nel giudizio individuale rimane certo aperta la possibilità che non si crei empatia con una certa visione del movimento, ma essere categorici non rende giustizia all’intelligenza di migliaia di altre persone che invece amano incondizionatamente questi artisti.
Astral Converted …Space is the Place
Astral Converted è uno straordinario racconto sul cosmo ed il suo muoversi secondo leggi solo in parte conosciute. I costumi di Rauscehnberg come anche il brano tonale Eight di J.Cage riescono a dare una idea sostanziale di cosa potrebbe accadere nell’infinito oltre la terra. Con una buona dose di visionarietà, la Brown inventa una serie di movimenti, anche ripetitivi, che spezzano qualsiasi concetto di eleganza da balletto tradizionale, seppure in una visione complessiva, esaltano alcuni passaggi noti della materia cosmica. Scivolamenti, rivoluzioni planetarie, cambi di direzione e rotolamenti improvvisi, rimbalzi e fughe improvvise. Il tutto nella sequenza tonale, persino drammatica, di John Cage.
Chi ha dimestichezza con quegli anni (il balletto è del 1989) non può fare a meno di ricordare la fascinazione di tanti artisti per lo spazio, come i jazzisti Sun Ra, quello di Space is the Place, che mise in piedi una comunità di artisti legata al culto del pianeta Saturno, a Wayne Shorter che scriverà una suite Emanon (No Name) interamente dedicata ai mondi cosmici e spirituali. E senza arrivare a tempi troppo recenti ricordiamo “Capricorn” (1975-77) di Karlheinz Stockhausen, parte di un lavoro più ampio Zodiac, che in Umbria abbiamo avuto la fortuna di ascoltare qualche anno fa a Segnali (rassegna di musica elettronica contemporanea) proposta dal Conservatorio Morlacchi di Perugia.
Working Title e la memoria umana
Sospensione e gravità sono invece gli elementi predominanti di Working Title (1985), lavoro autobiografico su musiche di Peter Zummo in cui la Brown rievoca la sua infanzia quando “correvo nella foresta fra muschio, fango, legno duro e marcio. Se vai veloce, devi solo scegliere dove posare i piedi. […] Erano movimenti totalmente asimmetrici e imprevedibili, un esempio di qualcosa che ho esplorato in seguito”. In Working Title, il corpo sospeso del danzatore interagisce con l’ensemble di danza: fra urti, spinte e movimenti volutamente goffi, il risultato è “profondamente umano”.
Al termine dell’esecuzione, dopo una bella dose di applausi di un Romano popolato come si conviene per le occasioni, ci tocca sentire ancora, ahinoi, commenti del tipo “che brutti costumi“!! C’è di peggio ovviamente.
Mentre non molti si interessavano della copiosa mentuccia in rapida crescita dalla parte del teatro dove c’è il corridoio con il tappeto erboso. Tanto profumo e tanto rammarico per non poterla raccogliere come si conviene. Pare che i vertici comunali abbiano deciso che li debba restare, sorta di deodorante naturale sugli odori da canicola.
Ma chi se ne importa, a noi i costumi sono piaciuti. E come noto siamo giornalisti di campagna.