Ci fu un difetto di istruttoria nel procedimento che portò il Ministero dell’Economia e delle Finanze a commissariare nel febbraio 2013 la Banca Popolare di Spoleto, istituto acquisito nel luglio 2014 da Banco Desio e della Brianza. La sentenza, che per alcuni aspetti è destinata a suscitare qualche clamore, è stata depositata lo scoro 9 febbraio dai giudici amministrativi della IV Sezione (Giorgio Giaccardi, Presidente, Nicola Russo, Consigliere Estensore, Raffaele Greco, Consigliere, Andrea Migliozzi, Consigliere, Giulio Veltri, Consigliere) ed è possibile leggerla da questa sera sul sito istituzionale del Consiglio. In realtà, ad una prima lettura del dispositivo, il decreto collegiale sembra entrare più nella forma che nella sostanza: in pratica la sola proposta di Commissariamento avanzata da Banca d’Italia (titolare dell’azione d’impulso) non sarebbe dovuta essere ‘sposata’ dal Mef che avrebbe invece dovuto avviare una propria istruttoria interna al fine di verificare lo stato dell’arte.
I ricorsi – il Tar Lazio aveva respinto tutti i vari ricorsi avanzati sia da ex amministratori della Bps, sia da quelli della fu controllante (la Spoleto Credito e Servizi). Una trentina di soggetti, se si considera l’intervento “ad adiuvandum” anche di una decina di soci Scs. Solo tre di questi, gli ex consiglieri Marco Carbonari, Michelangelo Zuccari e Claudio Umbrico, difesi dagli avvocati Mario Rampini del foro di Perugia e Giovanni Corbyons del foro di Roma, hanno proseguito il ricorso davanti ai giudici del Consiglio di Stato. Trovando oggi una qualche soddisfazione. I due legali impugnando il decreto del Mef, la proposta di commissariamento di Bankit e il provvedimento (sempre di palazzo Koch) di diniego alla decisione della Bps di procedere all’aumento di capitale, avevano risollevato una serie di errori.
La critica del Cds – ma è il ‘difetto di istruttoria’, a leggere sommariamente il dispositivo, l’unico vizio che il massimo organo della giustizia amministrativa ha riconosciuto ai ricorrenti. Leggiamo uno stralcio: “L’atto di impulso della Banca d’Italia costituisce una proposta obbligatoria, senza la quale, cioè, non potrebbe iniziarsi il procedimento che conduce all’eventuale scioglimento degli organi di amministrazione e controllo dell’istituto di credito. Tuttavia, ciò non impone al Ministro dell’Economia e delle Finanze di accettarne in modo acritico e dogmatico il contenuto, in quanto l’ordinamento gli attribuisce la facoltà di discostarsi dalla proposta qualora non ritenga sussistenti i presupposti per disporre l’amministrazione straordinaria. Pertanto, a prescindere dalla decisione – conforme o meno alla proposta dell’autorità di vigilanza – cui giungerà il Ministro dell’Economia e delle Finanze, è doverosa un’esplicita valutazione degli elementi posti a fondamento delle risultanze della Banca d’Italia”. Questo passaggio, che ha già fatto alzare i calici ad una parte della vecchia gestione di piazza Pianciani (non agli stessi ricorrenti) viene però stroncata dal passaggio successivo. Scrivono i giudici: “Da ciò non deriva l’illegittimità della motivazione ob relationem del decreto che dispone l’amministrazione straordinaria, ma deve censurarsi l’omesso esame critico delle “gravi irregolarità nell’amministrazione, ovvero gravi violazioni delle disposizioni legislative, amministrative o statutarie” e delle previsione di “gravi perdite del patrimonio” evidenziate nella proposta dell’autorità di vigilanza…in definitiva, il Collegio ritiene erronea la decisione impugnata nella parte in cui non ha rilevato l’eccesso di potere per difetto di istruttoria con riferimento al decreto n. 16 dell’8 febbraio 2013: il Ministro dell’Economia e delle Finanze, nel condividere gli esiti e le soluzioni contenuti nella proposta avanzata dall’autorità di vigilanza, avrebbe dovuto eseguire un’attività istruttoria, anche al fine di dare contezza della permanenza dei requisiti oggettivi e soggettivi necessari ad attivare la procedura di amministrazione straordinaria, nonostante l’intervenuto mutamento della situazione patrimoniale della Banca Popolare di Spoleto S.p.A.”.
Stessa situazione sull’aumento di Capitale varato dall’ex Cda ma bocciato da Bankitalia a seguito dell’ispezione conclusasi alla fine del 2012, poche settimane prima del commissariamento (12 febbraio 2013). Per i ricorrenti, i dati economici e finanziari successivi all’attività ispettiva rendevano possibile l’operazione di aumento del capitale societario: “Per quanto concerne i dati relativi al periodo successivo all’attività ispettiva della Banca d’Italia, già essi – scrivono i 5 giudici del Consiglio di Stato – avrebbero dovuto formare l’oggetto di un’autonoma istruttoria da parte del Ministro dell’Economia e delle Finanze. Come già rilevato, l’autorità preposta alla decisione definitiva (Ministro dell’Economia e delle Finanze), avrebbe dovuto compiere un attento esame degli stessi, anche eventualmente al fine di richiedere ulteriori accertamenti su alcuni singoli elementi, onde valutarne l’andamento nel tempo”. In conclusione la IV Sezione “definitivamente pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposti, e previamente riuniti, li accoglie e, per l’effetto, riforma le sentenze impugnate nei sensi di cui in motivazione. Spese del doppio grado compensate”.
Quali conseguenze? – difficile capire, in questa prima fase, quali conseguenze comporterà il dispositivo del massimo consesso amministrativo. E’ probabile che il Mef dovrà “sanare” il provvedimento emesso a suo tempo. Diversi gli studi legali che da questa sera sono già al lavoro per ulteriori azioni in difesa degli ex amministratori. E’ evidente che la notizia della sentenza ha alimentato nuovi commenti e critiche da parte di alcuni dei protagonisti dell’affaire “Spoleto” che hanno sempre rigettato le accuse mosse loro sia da Bankitalia, sia dalla Procura di Spoleto che sulla vicenda aveva aperto una inchiesta conclusasi in prima battuta con 34 indagati, passati clamorosamente poi a 14 con il nuovo Avviso di conclusione indagini emesso pochi giorni orsono.
© Riproduzione riservata