La lesione del pene con una lametta è un gesto eclatante di protesta che a livello mediatico può avere un effetto non propriamente adeguato rispetto a quanto accade quotidianamente negli istituti detentivi italiani. Nello specifico, il fatto, è avvenuta qualche giorno fa nel carcere di “Vocabolo Sabbione” di Terni, un atto di autolesionismo che si somma a tanti altri che avvengono all’interno della struttura carceraria, ma che ha suscitato particolare effetto per la parte del corpo scelta da ‘seviziare’.
Spesso, infatti, cittadini detenuti, specialmente di nazionalità maghrebina, inscenano forme di protesta estreme, sulle quali il personale in servizio a Terni è sempre intervenuto con efficacia, professionalità e tempestività, nonostante il fatto che spesso le condizioni di lavoro degli agenti siano di estrema difficoltà.
Soltanto grazie all’intervento degli agenti, qualche giorno fa, si è infatti evitata una ‘rivolta’ all’interno del carcere, dove un cittadino nordafricano aveva convinto gli altri detenuti a non fare rientro nelle celle, con la minaccia di lamette e un atteggiamento aggressivo nei confronti del personale intervenuto per sedare la situazione. Riuscito a riportare la calma evitando il peggio, il personale del carcere ha poi provveduto a sanzionare l’atteggiamento dei ‘ribelli’ a livello disciplinare, con una denuncia all’autorità giudiziaria e un trasferimento delle persone coinvolte in altri istituti.
La situazione è poi diventata più complessa dopo l’8 gennaio 2013, con la Sentenza Torreggiani, cioè la sentenza con la quale la Corte Europea ha condannato l’Italia per la violazione dell’art.3 della Convenzione Europea Dei Diritti Umani.
“La carcerazione – hanno affermato i giudici di Strasburgo – non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato. In questo contesto, l’articolo 3 pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente”.
In seguito a questa sentenza, il dipartimento italiano che coordina il sistema carcerario italiano, ha disposto che le case circondariali italiane lascino le celle aperte per almeno 8 ore al giorno, considerando la cella soltanto come ‘luogo di pernottamento’ e non di vita.
Il giusto rispetto della dignità dell’essere umano, a volte, determina conflitti nel momento in cui si verificano situazioni anomale; quando una grande quantità di detenuti si concentra negli spazi comuni, è ovviamente maggiore il rischio di situazioni potenzialmente pericolose, sulle quali gli agenti di polizia penitenziaria si trovano in netta minoranza e con strumenti poco adeguati per affrontarle. Il contatto tra più detenuti in spazi ampi, spesso di etnie, religioni e culture diverse, innesca meccanismi di violenza che, nonostante l’inferiorità numerica e la pericolosità dei momenti, gli agenti riescono comunque ad arginare e limitare, evitando tutte quelle criticità che potrebbero portare a conseguenze ben peggiori.