Luca Biribanti
Una danza di una marionetta guida i movimenti di un mozzo che ha legato la sua vita al mare. Senza amici, famiglia, il conforto di una donna, tutto ciò che rimane è la distesa d'acqua e la navigazione; la vita sulla nave, la solitudine come compagna di viaggio scandiscono il delirio di una storia d'amore a senso unico. Il mare tiene prigionieri: il protagonista è legato alla sua condizione da 3 ancore da cui non può svincolarsi. “L'idea delle 3 ancore – ha confidato l'attore Carmine Maringola a TO® – è venuta dalla mia passione per il mare che amo profondamente. Sono solito fare immersioni e, in una delle mie uscite subacquee, ho pescato per 3 volte delle ancore. Con Emma ci siamo detti che qualcosa doveva pur significare”. È come una marionetta in balia dei movimenti delle onde che squassano lo scafo. Una tempesta scuote la prua, unico oggetto tangibile sulla scena e l'eroe resiste 'epicamente' al disastro, come molte altre volte ha fatto. La scenografia è essenziale; un acchiappasogni, costituito da alcuni timer, è il simbolo che traccia la linea di confine tra la navigazione e la terra ferma. L'attore si muove come un funambolo tra questi 2 piani che si sovrappongono e si intersecano creando un'atmosfera surreale, ma tremendamente vera. “L'idea del testo – ci ha confidato Maringola – è nata da una storia vera. Conoscevo un marinaio di Palermo, dove ho una piccola barca, che per anni ha fatto della vita in mare la sua ragione di vita. Da un giorno all'altro è stato escluso da questa passione, per colpa dei filippini dice lui, ed è rimasto a terra senza saper fare altro. Con Emma non abbiamo mai un copione prestabilito, ma lavoriamo molto sull'improvvisazione; il testo 'finale' scaturisce dalle prove che di volta in volta plasmano la sceneggiatura”. Un dramma della solitudine, dove il protagonista è solo sulla scena a interpretare 3 personaggi diversi: il mozzo, il marinaio e il capitano, caratterizzati ciascuno da una partitura gestuale ben definita. La stessa regista, Emma Dante, è particolarmente attenta alle movenze dell'attore; il suo teatro dipende poco dal testo, che è solo un mezzo per valorizzare l'essenza del personaggio. La rappresentazione vive anche di momenti crudi e tipici del mondo marinaro: la simulazione di una masturbazione, la sodomia e la fellatio sono simboli di una mancanza, ma, al tempo stesso, un riflesso di ciò che accade nel vita di mare. Il personaggio è un eroe del '900; un idiota di Dostoevsij o un inetto di Kafka, ingenuo, coinvolto dalla passione cieca che lo porta a vivere al margine, ma nel profondo. L'incanto della navigazione viene bruscamente interrotto dai timer che suonano all'unisono. Il protagonista si trova catapultato fuori dalla nave, la prua è lontana, il suo destino incerto e il suo orgoglio ferito; è convinto che senza di lui la nave non possa essere governata, che sia lui l'albero maestro dello scafo. Non sa fare altro, non sa come guadagnarsi da vivere e lo spettacolo continua anche dopo la fine. L'attore rimane in scena chiedendo soldi al pubblico, continuando a interpretare il suo ruolo. È lo stesso destino del marinaio della “Ballata” di Coleridge; soltanto il mare può essere motivo di vita e soltanto raccontando del mare si può continuare a vivere.
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