La Cassazione ha annullato la condanna inflitta a Oscar Giannino, Giuseppe Castellini e Andrea Luccioli, citati in giudizio da Luca Cordero di Montezemolo per una frase pronunciata da Giannino in campagna elettorale e riportata dal Giornale dell’Umbria nel 2013. “In riferimento al diritto di critica, il rispetto della verità oggettiva del fatto assume un rilievo minore rispetto al diritto di cronaca”, scrivono i giudici.
Da sottolineare, come spiega lo stesso Luccioli su Facebook, i due giornalisti umbri erano usciti dal processo già dopo il primo grado, visto che c’è un accordo sottoscritto dalle parti che aveva visto addirittura i due cronisti locali risarciti. “Purtroppo il giudizio è stato riassunto nei confronti del sottoscritto e del Castellini perché, nelle more del fallimento del Giornale dell’Umbria, l’allora nuovo avvocato – subentrato insieme all’ultima proprietà, quella che ha portato alla chiusura del quotidiano – se ne è ben guardato dal portare le carte dell’accordo innanzi al giudice di secondo grado”, scrive Luccioli.
La vicenda è nota. Sei anni fa Montezemolo aveva querelato i tre giornalisti, chiedendo 700 mila euro a Oscar Giannino e 100 mila all’ex cronista e all’ex direttore del Giornale dell’Umbria. I due giornalisti umbri, nel febbraio 2013, avevano scritto di un comizio del giornalista allora candidato nel movimento “Fare – Per fermare il declino” alle Politiche che si sarebbero tenute pochi mesi dopo.
Nel pezzo si leggeva tra l’altro che Giannino, sul “suo rapporto con i ‘montiani’ e gli altri partiti, esprimeva l’opinione che fossero tutti ancora legati a vecchi schemi di ‘spartizione di poltrone’ e di ‘seggi sicuri’”; e poi sul mancato accordo con i ‘montiani’ aggiungeva ‘che si era confrontato anche con Montezemolo’, leader di Italia Futura, ‘il quale tuttavia gli aveva fatto un ragionamento analogo e quello di altri politici e gli aveva rivolto la domanda ‘tu quanto costi?’, cioè quanti seggi vuoi’”.
Ora la Cassazione spiega che “L’eventuale portata diffamatoria di una dichiarazione riportata all’interno di un articolo di critica politica va valutata nel complesso della vicenda raccontata e commentata dal giornalista e in relazione al contenuto che la frase intendeva veicolare”. La Suprema Corte, in estrema sintesi, spiega che il diritto di critica politica, “consente il ricorso anche ad espressioni forti, e persino suggestive, al fine di potenziare l’efficacia del discorso o del testo e di richiamare l’attenzione dell’interlocutore destinatario”.
Nell’ordinanza, la terza sezione Civile presieduta da Giacomo Travaglino, soffermandosi sui principi posti a fondamento del diritto di cronaca e di critica, evidenzia come in riferimento all’esercizio di quest’ultimo, “in tema di diffamazione a mezzo stampa il rispetto della verità oggettiva del fatto assuma un rilievo minore rispetto al diritto di cronaca, in quanto la critica, ed ancor più quella politica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, anche ove non sfoci nella satira, ha per sua natura carattere congetturale e, pertanto, non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica”, rilevano i giudici.
“Un approccio – aggiunge la Corte nello stralcio della sentenza riportato da FNSI – che risulta conforme non solo alle leggi che in Italia regolano una libertà di rango costituzionale (la libertà di espressione fissata dall’articolo 21 della Carta), ma anche a quanto sancito dalla Convenzione europea dei diritti umani all’articolo 10 (‘Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione’) e dalla giurisprudenza europea in tema di necessario bilanciamento fra il dettato di tale articolo e il diritto al rispetto della vita privata previsto dall’articolo 8 della stessa Convenzione, nel quale rientra il diritto alla reputazione quale naturale contrapposto del diritto di critica”.