Tutto è nato da una semplice considerazione sull'arrivo - si spera - della valanga di soldi del Recovery Plan, ben 45 milioni, sul progetto di recupero dell'Anfiteatro
Qualche giorno fa ci siamo imbattuti, nel corso della quotidiana navigazione sui social, in un post di Facebook, diremmo persino promettente.
Un nostro amico e lettore, nel pieno della tempesta “Ospedale” a Spoleto, con o senza lenzuoli bianchi, aveva trovato modo e tempo per riflettere concretamente su uno degli aspetti che invece dovrebbe far tremare le coscienze cittadine, in special modo quelle di coloro che si arrossano l’epiglottide a forza di soffiare parolibere e intonarumori futuristi dal dubbio esito in termini di comprensione, ma dal sicuro effetto stimolatorio per i malpancisti.
La riflessione
Tutto è nato da una semplice riflessione che il nostro amico e lettore fa sull’imminente arrivo – si spera – della valanga di soldi del Recovery Plan, ben 45 milioni, sul progetto del recupero dell’Anfiteatro Romano a Spoleto.
Sul fatto poi che la fu-amministrazione de Augustinis avrebbe fatto un papocchio tra Progetto preliminare e Progetto esecutivo, ci sarà tempo per verificare se un eventuale errore metterà in discussione anche il megafinanziamento del Next Generation UE.
Ma per il momento il punto sostanziale su cui soffermarsi e discutere è invece quello dei dati emersi dal grafico postato in FB e relativo ai flussi turistici del 2018.
Premesso che le cifre esposte non consentono una analisi specifica per voci di composizione e soprattutto in riferimento a singoli comparti di attrazione turistica, le percentuali sono sconfortanti per quanto riguarda Spoleto e il suo territorio.
Vi sono una serie di raffronti con territori vicini che saltano immediatamente agli occhi e dovrebbero a questo punto far fare una seria riflessione sull’indirizzo di tutto il settore, atteso che da anni ormai si strilla (sempre arrossandosi l’epiglottide e anche le tonsille) sul fatto che il Turismo è la principale economia del territorio.
Se le cose stanno così il misero 4 e poco più per cento maturato da Spoleto diventa la misura di una dimensione economica che a questo punto non corrisponde alla narrazione che molti degli attori politici e socio-economici hanno sempre fatta.
Chiariamo da soli, prima che ci venga obiettato da altri sapientoni magari anche maliziosamente, che il 2018 arriva dopo la grande crisi del sisma del 2016 e che ad esempio su alcuni casi particolari, pesano situazioni contingenti che sono legate anche a fattori di attrazione non propriamente turistici. Si veda infatti l’aumento di flusso a Foligno (leggi folignate) durante il periodo dei giuramenti e dei concorsi della Caserma Gonzaga e che consente una performance esattamente doppia a quella dello spoletino, ovvero l’8,6%.
Un trend che non ha subito inversioni nei dati del 2019 e del 2020 (fonte Regione Umbria), seppure soggetto a una crescita generale, dando così l’impressione di avere le caratteristiche di una dimensione strutturale di sistema
Cosa conta di più
Ma il post di FB del nostro amico e lettore capita a “fagiolo”, in un momento in cui la politica locale ha deciso di scannarsi sull’Ospedale di Spoleto, di cui sono note le recenti trasformazioni e vicende, ma soprattutto è noto il costante abbandono legato a oltre 30 anni di sottovalutazione di un territorio che prima ancora che per l’Ospedale avrebbe dovuto mettersi in allarme per ben altri depauperamenti legati alla natura storica, economica e sociale del territorio, Valnerina inclusa.
Uno che conosciamo molto bene e di cui abbiamo recentemente parlato in un focus in occasione della pubblicazione di un interessante libro scritto da Domenico Manna, è la sciagurata riforma delle Comunità Montane che ha di fatto smantellato un tessuto storico culturale legato alle produzioni locali e alla natura del territorio e ai suoi fabbisogni, omologando aree eterogenee a sistemi di gestione insufficienti e alienanti che dovrebbero appunto andare bene per tutti.
La stoltezza
Salta così agli occhi la stoltezza (soprattutto politica) di una battaglia e una mobilitazione tutta concentrata sul solo obiettivo del servizio ospedaliero, seppure necessario in una comunità civile.
Con l’aggravante “ideologica” di voler ottenere il ripristino dello status quo ante alla tragedia della pandemia, quando già si registravano non pochi problemi nella quotidiana gestione di importanti reparti, come la Cardiologia.
Un carrozzone che non ha più nessuna contemporaneità con lo sviluppo dei servizi e che anche i prossimi ingentissimi investimenti del Recovery Plan sulla digitalizzazione dovrebbero poter modificare in campo nazionale e locale.
Magari se avessimo avuto le idee chiare, invece di essere al solito piagnoni e presuntuosi, potevamo anche presentarci con qualche pizzino di natura più semplice e concreta al tavolo della governatrice Tesei per parlare di sviluppo futuro grazie al Next Generation UE.
Riflettere e proporre
Quale potrebbe essere dunque la riflessione che una simile vicenda ci dovrebbe far fare? E’ plausibile che lo sviluppo e il rilancio economico di un territorio passi, secondo certa politica, solo sulla presenza di un Ospedale, inteso come generatore di servizi di assistenza e da ora, anche di sicurezza individuale? Dove finisce la credibilità di una battaglia di trincea sulla sanità territoriale (quella che vorremmo davanti alla porta di casa per intenderci) e inizia invece la rinuncia ragionata a percorsi di identità di tipo padronale, magari perchè “c’avemo l’Ospedale” ??
Siamo ancora in grado di progettare un futuro individuando nuove strategie, o davvero pensiamo che lo sviluppo passa dal riottenimento di tutto ciò che ormai non abbiamo più? Ci siamo mai domandati di quale classe politica e istituzionale abbiamo realmente bisogno? O ci accontentiamo di qualcuno che strilla più forte senza nessun potere contrattuale, con o senza lenzuoli?
La verità è sempre più facile di come ce la immaginiamo e nel nostro caso è che questo territorio non ha più sostegno e spesso viene considerato un posto di piagnoni e rompiballe, principalmente per cause legate a fattori anagrafici.
Questa città è abitata, ANCHE ma non solo, da persone che nella necessità di avere un ospedale a portata di mano vedono la maniglia a cui appendersi, lo scopo di una sicurezza e una tranquillità di chi si avvia al tramonto. Siamo una città che vorrebbe avere il Mare della Tranquillità, come quello lunare. Un Nirvana costante che odora di scatoloni abbandonati in cantina. Nemmeno il gusto di dialogare abbiamo più! Solo qualche strillo strozzato prima di ingollare una neoborocillina per lenire l’arrossamento.
E così ci ritroviamo a dover prendere atto che Spoleto in campi determinanti come l’attrazione turistica, conta come il due di briscola a bastoni quando regna coppe.
Occorre una nuova visione, una nuova serie di obiettivi concreti (possibilmente pochi per cominciare) che rimettano l’asfalto su un percorso che ormai è peggio di un tratturo di montagna.
Ospedale o coperta di Linus?
Spoleto la faccia finita con la inutile nostalgia del passato e si apra a progetti futuri dove i cambiamenti non creano paure e dove avere un “Ospedale diverso” da quello attuale, ma che ci metta in condizione di sicurezza anche se poi il letto di ospedale è a 25-30 chilometri. Si può fare, soprattutto oggi. Ma si deve avere un progetto, andare a discutere con qualcosa che guardi avanti e proponga una visione di futuro. Possibilmente con una classe dirigente e amministrativa rinnovata completamente.
Altrimenti tutto ciò che ci rimane è avere solo paura e avere il tremendo bisogno di un ospedale che diventa come la coperta di Linus.
La politica del turismo va completamente ripensata e reimpostata. Se ci illudiamo che quanto fatto sia sufficiente o che basti per ripartire siamo fritti in partenza.
Se non metteremo mano, SUBITO, al disegno territoriale dei prossimi 20-30 anni ci saremo fumati ancora una volta altre 2-3 generazioni, non bastassero quelle che sono state azzoppate anche da certi attuali oranti e giaculatori che forse gravati da amnesie senili, si sono dimenticati di essere stati protagonisti a vario titolo della mattanza culturale, prima ancora che socio economica, degli ultimi 40 anni.