Il Comune di Spoleto ha agito correttamente nel dichiarare irricevibile la richiesta di sanatoria da parte dei proprietari degli appartamenti che compongono il doppio palazzo della Posterna. È quanto ha stabilito il Consiglio di Stato rigettando l’appello presentato dai 13 proprietari delle varie unità immobiliari, difesi dagli avvocati Massimo Marcucci e Roberto Quirini, dopo che già il Tar aveva stabilito la correttezza dell’operato dell’ente pubblico.
“Correttamente, dunque, il primo giudice – si legge nella sentenza del tribunale amministrativo di secondo grado – ha attinto dalla motivazione della sentenza della Corte d’Appello di Firenze il riferimento alla non condonabilità dell’opera, rebus sic stantibus: la possibilità, infatti, di integrare la cubatura assentibile mediante strumenti pattizi aggiuntivi conferma, piuttosto che negare, l’insussistenza del relativo requisito di edificabilità minima all’atto del rilascio del permesso di costruire”.
La vicenda è quella, ben nota, del doppio palazzo della Posterna, bollato per anni come ecomostro ed effettivamente dichiarato illegittimo dalla giustizia penale con sentenza definitiva. L’accordo pubblico – privato alla base della realizzazione dell’edificio, di circa 15mila metri cubi, aveva previsto a inizio anni 2000 la cessione della volumetria per la struttura privata in cambio del terreno su cui realizzare il parcheggio della Posterna a servizio dell’omonimo progetto di mobilità alternativa. Considerando però un indice edificatorio molto più alto rispetto a quanto previsto dalla pianificazione urbanistica per quell’area. Da qui la sentenza che ha ordinato la demolizione del doppio palazzo, evitata dalla dichiarazione, da parte del Comune di Spoleto, della pubblica utilità dell’opera, che potrebbe – tra le varie azioni consentite – acquisirla a patrimonio pubblico.
Tra le varie azioni giudiziarie intentate nel corso degli anni da privati e società coinvolti nella vicenda, c’era anche la richiesta al Comune di annullare il permesso a costruire rilasciato nel 2006 ed accogliere la richiesta di sanatoria presentata dai 13 attuali proprietari degli appartamenti. Richiesta che appunto gli uffici comunali avevano rigettato dichiarandola irricevibile. Un provvedimento contro il quale è stato proposto ricorso al Tar che lo ha rigettato ed ora al Consiglio di Stato che ha fatto altrettanto.
Tra le motivazioni dei giudici amministrativi, si legge che “quali che fossero i presupposti e finanche gli obblighi preesistenti all’operazione immobiliare, essi esulano dal perimetro della controversia, non potendo certo il perfezionamento di un procedimento distinto di acquisizione quale quello invocato, che presuppone comunque una precisa scelta da parte del Comune, essere dequotato ad adempimento meramente formale, “recuperabile” mediante convalida dell’atto cuoi avrebbe dovuto accedere”.
E ancora: “La sanatoria nonché la fiscalizzazione, sono invero basate su distinti presupposti (uno attinente ai vizi dell’atto originario, l’altro all’impossibilità di demolire l’abuso), ma presuppongono pur sempre la doppia conformità (sul punto, v. di recente Cons. Stato, sez. II, 17 giugno 2024, n. 5428), ovvero il rispetto della disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione dell’abuso, che al momento della presentazione della relativa istanza. Il che non è nel caso di specie, giusta la più volte ricordata mancanza dei prescritti indici edificatori. […] D’altro canto, ciò che le parti hanno richiesto al Comune con l’istanza non ritenuta valutabile dallo stesso è non la monetizzazione dell’illecito, ma la sua sanatoria cartolare mediante convalida dell’atto preesistente: la mancanza dei presupposti di operatività della norma invocata in parte qua non potevano che portare alla soluzione adottata dall’Amministrazione.21. La pretesa, pertanto, che il Comune si attivasse anche per l’acquisizione delle aree aggiuntive (in relazione alle quali la difesa civica ha pure chiarito di avere adottato atti di significato opposto, quali l’esproprio sanante) non nolo non trova fondamento in alcun obbligo normativamente previsto, ma soprattutto non può costituire un vizio formale di natura procedurale recuperabile in base all’art. 38 del d.P.R. n. 380/2001”.