don Gianfranco Formenton
Domani, 26 dicembre, alle ore 18.00 alla Madonna della Stella si concluderà il processo di beatificazione di don Andrea Bonifazi. A suo tempo in molti scrivemmo di lui con la consapevolezza di avere avuto la grazia di avere conosciuto un prete che come pochi hanno saputo incarnare con semplicità ed eroismo il Verbo in questo mondo ed in questa Chiesa spesso impegnati a complicare orribilmente ideali e relazioni che il mistero del Natale ci hanno trasmesso come elementi essenziali per la ricerca della felicità e del senso della vita.
Riscrivo queste righe dedicandole ai ragazzi che lui svezzò nella fede e che io ebbi la ventura di accompagnare per alcuni anni nella parrocchia di Villamagina di Sellano affinché non vada perduta la memoria del bene anche se ci capita di confrontarci quotidianamente con i nostri insuccessi e con il naufragio delle nostre speranze più intime. Il bene e la santità, si sa, superano la relatività del tempo e noi tutti ci auguriamo di poter vedere un “prete normale” indicato come icona di un presente che ci interpella.
Ho avuto la grazia di conoscere don Andrea come professore all’Istituto Teologico di Assisi e, una volta prete, di essere stato suo successore nella parrocchia di Villamagina di Sellano. Confesso che ho sempre avuto un po’ di soggezione di lui come professore. Tutti possono confermare che, oltre la profonda conoscenza di quello che insegnava, don Andrea era anche estremamente lineare nelle valutazioni e nei giudizi e rigoroso nel suo ruolo di docente.
Avevo, comunque, avuto modo di sentirlo parlare della sua parrocchia sulla montagna sellanese e mi sono sempre chiesto come una persona come lui potesse conciliare così insegnamento e pastorale. Mi meravigliavano i suoi racconti e come sapeva “raccontare” cos’è una parrocchia in quelle piccole realtà umbre che non conoscevo e mi incuriosiva il suo modo di essere al contempo docente preparato e umile prete di montagna.
Quando il Vescovo Ambrosanio, un mese dopo avermi ordinato prete, mi disse: “Tu andrai a Villamagina” la mia preoccupazione era di dovere entrare in un mondo che non conoscevo ma anche di essere il parroco che succedeva a don Andrea.
Negli anni del seminario uno pensa spesso a “come sarà quando…” e si immagina di essere mandato a fare il parroco qui o lì ma quando viene il momento di cominciare “a fare il prete” ti aspetti che qualcuno ti dica: “Guarda, si fa così”.
Don Andrea era parroco di Villamagina e Montesanto. Quindici piccoli borghi a ridosso di Sellano. Dieci di qua della Valle del Vigi; cinque di là. Lo avevano preceduto quattro parroci che, come tutti i parroci di montagna, avevano lasciato memoria importante della loro presenza in quanto a tradizioni, consuetudini ecc.
La domenica che decidemmo di fare “l’ingresso”, don Andrea mi accompagnò a Villamagina e mi lasciò sulla piazza mentre lui andava a recuperare il vino per la messa. Uno sguardo alla chiesa di Villamagina, chiusa dal terremoto del ’79, e alla casa parrocchiale: un tavolo nella cucina davanti ad un grande camino, un frigorifero e un fornello nella piccola cucina e un letto nella stanza attigua.
Più tardi scoprii che il tavolo della cucina era anche un tavolo da ping-pong per i quattro cinque ragazzini che consideravano quella casa come la loro parrocchia e che la piccola cucina e il letto gli servivano per impostare delle cene spartane e dei pernottamenti che gli permettevano una strategia di spostamenti tra la sua casa paterna alla Fratta, la parrocchia e l’Istituto Teologico di assisi.
Il Maresciallo dei Carabinieri mi raccontò che più di una volta lo aveva visto recuperare un po’ di sonno addormentato nella sua auto sul ciglio della strada.
Concelebrai la messa con don Andrea nella palestra della ex-scuola elementare. Muri verdi di umidità, un tavolo come altare, un leggìo traballante, un tabernacolo stile “giovedì santo” e gli antichi banchi della chiesa con le targhette dei donatori. Nessuno sapeva chi ero e don Andrea nulla disse nella celebrazione. Fece l’omelia e commentò le letture. Celebrò il Memoriale e comunicò tutti, piccoli e grandi.
Agli avvisi parrocchiali annunciò l’arrivo del nuovo parroco e raccontò con la stessa linearità con cui insegnava Sacra Scrittura ed Ebraico all’Istituto Teologico di Assisi, che il Vescovo lo aveva chiamato ad un nuovo incarico, per cui lui avrebbe continuato ad assistere solo le comunità del Montesantese. Raccomandò di non fare tante storie e di accogliere il nuovo parroco come un dono del Signore.
Dopo la messa la gente, gli anziani, i ragazzi piangevano e dissero tutte le cose che si dicono quando una persona amata ti annuncia che se ne va. Don Andrea fu molto conciso nel ricordare a tutti che tutti abbiamo un compito, una missione nella vita e che non siamo noi importanti ma la missione e il compito che abbiamo. Mi ricordo le lacrime e lo smarrimento di molti e il mio imbarazzo e la mia preoccupazione mentre mi chiedevo: “Ma come farò a sostituire un prete così”.
Pensai anche, però, che se quello scantinato era degno di celebrare la fede per lui e se, anzi, era stato per lui una patria, poteva esserlo anche per me. E mi ricordai di questo fatto nel momento in cui toccò a me, dieci anni dopo, di andarmene dalla stessa parrocchia. Lo scantinato della ex scuola elementare non c’era più, la chiesa restaurata era stata distrutta dall’ennesimo terremoto. Ci trovavamo in una nuova struttura ma feci esattamente come aveva fatto lui e raccontando le stesse cose che lui raccontò allora. Le situazioni pratiche cambiano, il senso delle cose no.
Il “passaggio delle consegne” fu altrettanto essenziale. Mi raccontò come aveva impostato l’attività pastorale nelle dieci comunità di Villamagina, di come aveva organizzato le celebrazioni e perché. Mi fece presente il problema del “campanilismo” di dieci paesi che fino a qualche anno prima erano tre parrocchie (e ognuna “rivendicava” la messa domenicale), ma mi rassicurò raccomandandomi di parlare con la gente che tutto si semplifica. Mi chiese se mi serviva il frigorifero e il letto e gli dissi di sì. Quando servì di nuovo a lui qualche anno dopo, non ebbe nessuna difficoltà a richiedermelo.
Era un contadino, sia come uomo di studio che come pastore, e non si perdeva in considerazioni estemporanee. Ciò che è, è; ciò che non è, non è! Gli avevano affidato una parrocchia e lui si organizzò con il tempo che aveva, con l’immagine di chiesa che aveva e con l’attenzione ad essere sempre vicino alla gente nelle necessità, nei problemi, nelle gioie e nel dolore.
Non aveva velleità di carriera e altre ambizioni. Si mise a fare il prete così, perché è un dovere, una vocazione, una missione: “Non ero profeta, né figlio di profeta. Il Signore mi prese da dietro l’aratro…” (Amos)
La sua forza era “il metodo”. Quello che fece a Villamagina e a Montesanto, lo fece anche a Verchiano e a Baiano. Non era prete di personalismi. Era un uomo di fede e di Chiesa. Aveva bene in mente il senso della fede, il senso della storia, le tragedie dell’uomo ed era uomo di preghiera solida. Non aveva tempo da perdere e, anzi, per lui il tempo era il banco di prova della fede.
In ogni chiesa (erano 10) trovai un essenziale “messalino”, feriale e festivo, quattro casule, secondo i colori liturgici… Quello che serve (oltre ad un calice e una patena) per celebrare la fede secondo quello che ci avevano insegnato. Ogni piccola chiesa di montagna era per lui una “cattedra” e una cattedrale ed in questo tutti, fino all’ultimo pastore di pecore, ebbero la dignità che spetta ai “figli di Dio” e il diritto ad una liturgia dignitosa. Per anni portai con me un “kit” essenziale che mi lasciò con i contenitori per gli oli santi. Una strategia “montanara” per non fare mancare a nessuno la “consolazione della fede”.
Dopo molti anni, in una piccola chiesa della parrocchia di Baiano ritrovai le stesse cose e pensai che sì, questa era la forza di don Andrea: sapere e credere che la Chiesa “è” e non “dovrebbe essere” e che tutti i fedeli hanno diritto ad una liturgia dignitosa e secondo i sacri canoni della Chiesa.
Negli incontri di vicariato, negli incontri diocesani, ogni qualvolta toccava a lui parlare agli altri preti, lo faceva sempre a partire dal punto di vista del verbo presente, con decisione e senza quella velata rassegnazione del “condizionale” che tante volte abita le vicende ecclesiali e che ci fa pensare che le cose dovrebbero essere in un certo modo, ma che, purtroppo…
No. Lui partiva sempre dal dato che la Chiesa è e, quindi, noi siamo. Lo faceva con tenacia e caparbietà sia che si trattasse di tre ragazzi ai quali raccontare la fede, sia di anziani che avevano bisogno di essere consolati nel loro abbandono e nella loro vecchiaia, sia di genitori in pena e raccontava a tutti la stessa fede semplice del Vangelo tradotta con l’umanità del pastore. E trattava tutti esattamente allo stesso modo senza badare al lignaggio, ai titoli e alle arroganze. Come il contadino, appunto, che può trovarsi davanti a chiunque e gli dà del tu, aggiungendo all’occorrenza un “eccellenza” o un “signore” giusto per rispetto ma senza modificare in nulla il senso e il contenuto di ciò che vuole dire.
E sempre bisognava riconoscere, soprattutto quando sembrava duro nel giudizio, che quella durezza altro non era che la semplice verità detta con le parole semplici di chi non ha nessun interesse a girare intorno ai problemi e va subito al nocciolo della questione.
Molti di noi hanno una foto di don Andrea che dice esattamente da dove gli veniva la forza e il “metodo”. Lo si vede davanti alle impalcature della casa parrocchiale di Verchiano, con in mano l’immancabile rivista “Servizio della Parola”. Il professore di Sacra Scrittura era anche il parroco della Parola.
Spesso negli incontri tra noi parroci della Valnerina, quando si trattava degli inevitabili cambiamenti che dovevamo operare nella nostra azione pastorale, mentre molti di noi erano preoccupati delle conseguenze pratiche di certe decisioni, di ciò che la gente avrebbe pensato, di ciò che avrebbe detto, di come fare a far passare “le novità”, lui ricordava semplicemente qualche brano di S.Paolo o qualche passaggio degli Atti degli Apostoli che gettavano immediatamente un’altra luce sui problemi. Era naturale per lui “leggere” la pastorale, la Chiesa, la comunità parrocchiale alla luce della Parola che semplifica e illumina la vita dei fedeli.
E lo stesso faceva con i ragazzi e con tutti. Se si doveva parlare di libertà partiva dal libro dell’Esodo o dalla lettera ai Galati. Se si doveva parlare di amore, apriva il Vangelo di Giovanni o indicava il Cantico dei Cantici. Se doveva affrontare il tema della preghiera non c’erano che i Salmi. Ma sapeva spezzare questa sapienza biblica con i linguaggi dell’uomo per cui risultava attraente sia ai bambini che lo ascoltavano incantati sia agli adulti che riconoscevano nelle sue parole la solidità dell’uomo.
Questa era la solidità della sua dottrina che sapeva trasmettere senza perdersi in bizantinismi e corollari che non amava e che stigmatizzava come inutili perdite di tempo. La Parola di Dio, “viva, efficace…come una spada a doppio taglio” era la sua forza e la base di tutto il suo sapere. Sapeva essere in questo veramente “tagliente” soprattutto quando stroncava le discussioni inutili anche tra i suoi confratelli preti indaffarati spesso intorno a problemi di lana caprina. Stava zitto e ascoltava ma alla fine sapeva fare una mirabile sintesi dell’inutilità di correre dietro a qualcosa che sia più piccolo della Parola.
Nella sua azione pastorale era molto rigoroso e pragmatico e non indulgeva a stranezze e a devozionismi, anche se era estremamente rispettoso della fede semplice dei semplici. Semplicemente cercava in ogni celebrazione, in ogni ricorrenza, in ogni sacramento di fare risplendere il “senso” che veniva dalla Parola. Non si arrese mai ad una religiosità commerciale ed a certe logiche dello spettacolo che vanno molto di moda. Sembrava a volte un piccolo profeta Amos di fronte a chi gli veniva a fare richieste strane di matrimoni sui cocuzzoli delle montagne, o processioni estemporanee con ostensione di oggetti miracolosi, ma non esitava a mettersi davanti ad una processione di chilometri per salire alla chiesa di San Salvatore con tutto il popolo di Verchiano e una volta arrivato su aprire il libro e pregare i Salmi delle Ascensioni a Sion.
Don Andrea aveva inoltre un altro dono grandissimo. Quello di coniugare la sua intelligenza nelle cose bibliche ad una attenzione particolare all’uomo concreto. Ci sono mille episodi che ci fanno leggere come la legge del Samaritano, la teologia del “Và e anche tu fa lo stesso”, l’ecclesiologia dell’”Avevo fame e mi avete dato da mangiare…” fossero per lui un imperativo categorico e naturale. Semplicemente ci accorgeva del problema concreto e agiva con la semplicità e la concretezza di chi sa che la fame è fame e il dolore è dolore e di come spesso le nostre parole di conforto ci trasformano in “consolatori stucchevoli” secondo quanto ci aveva raccontato di Giobbe.
Il tempo donato e la vicinanza erano l’altra parte del suo “metodo”. E se consideriamo cos’era il tempo per un uomo che partiva dalla Fratta di Montefalco per raggiungere Montesanto (passando per Villamagina e Sellano) per un funerale e poi “proseguire” per Assisi per un esame… questa dimensione ci dà un’immagine precisa dell’uomo che era.
Ci sono persone che raccontano della sua costanza e puntualità nello stare vicino agli ammalati negli ospedali, della sua “rude” tenerezza nei confronti dei bambini. Per uno di loro fu capace, nella stessa sera, di prendere la macchina e partire da Villamagina, scendere a Spoleto per comprare il miele di acacia per la tosse e ritornare a Villamagina con una naturalezza tale che, quando qualcuno commosso lo ringraziò, rispose con quel suo: “Ma scì!”. Che voleva dire che era normale: “Che ce vòle?”.
E innumerevoli sono gli episodi che, credo, molte persone che l’hanno conosciuto, possono raccontare. Questi pochi riferimenti sono quelli che ho avuto la grazia di raccogliere per conoscenza diretta, per esserne stato il suo successore a Villamagina di Sellano e confratello nello stesso Vicariato. So che fu lo stesso uomo anche a Verchiano e a Baiano e che il ricordo di lui non è legato a sterili rimpianti ma alla sostanza di un prete che seppe comunicare in pochi anni ciò che è un prete. E’ stato per me e per altri un professore, un amico, un fratello nel presbiterato e un testimone di uno stile di vita che va oltre la vita e alla morte e che ci ricorda ancora, ogni giorno, che essere preti e parroci oggi è questione di fedeltà al senso e alla logica di una Parola scritta e tramandata dalla grande Tradizione della Chiesa.
Così mi è parso di riconoscere realizzata nella sua azione pastorale tutto ciò che ci è stato trasmesso come tesoro della Chiesa conciliare. A me personalmente ha dato molto ed ancora oggi, quando mi trovo di fronte alle mie miserie, all’ottusità di certe nostalgie pastorali, a certe rivendicazioni fuori luogo e fuori tempo, mi torna in mente il suo sorriso beffardo e lui che con due parole stroncava, con le grandi ragioni del “senso” della Parola, ogni velleità di insano rimpianto del passato, non perché il passato non abbia valore, ma perché la fede si misura sul presente e il presente è illuminato dalla Parola.
Molti di noi hanno imparato da lui che è possibile realizzare il sogno per cui ci siamo sentiti chiamati a essere preti e, se molti di noi ancora lo sono, è anche perché hanno imparato da lui il senso della Chiesa. Molti di noi hanno imparato a sorridere di certe stonature, ad accettare l’imperfezione senza però mai cedere alla tentazione che stonature e imperfezioni cancellino il sogno e la speranza. Ci ha insegnato, se vogliamo, “l’utopia dei piccoli passi”, la capacità di riconoscere, nella piccolezza del poco che facciamo, la realizzazione del grande sogno della nostra fede. E non è poco!
Don Andrea è stato parroco di Villamagina e di Montesanto dal 1980 al 1988. Di Montesanto dal 1988 al 1992. Di Verchiano dal 1992 al 1996. Di Baiano dal 1996 fino alla morte avvenuta nella notte di Natale del 1998 mentre in tutte le comunità che ha servito come prete si annunciava che “La Parola si è fatta carne”.
L’ultimo mio atto come parroco di Villamagina fu quello di mettere la sua foto sulla grande croce di legno che domina la parrocchia, sulla strada tra il Valico del Soglio e Sterpare. Sotto quella croce ogni anno si fa memoria del Crocifisso e mi sembrò giusto aggiungere alcune parole del grande poeta Turoldo che raccontassero come don Andrea visse e morì e come ci insegnò, con Giobbe, a vedere con occhi di verità anche “l’ultimo nemico”:
E quando sarò disteso
non la tristezza di un albero
abbattuto dalla bufera turbi
la serenità di chi ti ha cantato,
amica segreta
di colloqui interminabili:
per dirti, per dirmi
che soluzione unica
è accettarti,
e volerti bene
e amare
ancor più la vita!
Non dunque
rancore di un vinto,
o spavalda ironia sigilli
il nostro incontro:
tu stessa mi darai
una mano…
Don Andrea Bonifazi, si chiude processo beatificazione: “Beati noi che abbiamo conosciuto un Santo”
Dom, 25/12/2011 - 20:24