Arte e cultura, la pittura secondo Mauro Bordini - Tuttoggi.info

Arte e cultura, la pittura secondo Mauro Bordini

Simone Pompili

Arte e cultura, la pittura secondo Mauro Bordini

In occasione della presentazione della sua ultima opera abbiamo avuto il piacere di scambiare quattro chiacchiere con il grande artista spoletino.
Dom, 19/07/2020 - 08:05

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Classe ‘68 realizza il suo primo vernissage per la kermesse del Festival dei Due Mondi nel lontano 1998. Tra le mostre più importanti a cui ha partecipato ricordiamo quelle ai Magazzini del Sale di Venezia dove, tra gli altri, espose anche Pablo Picasso; nel 2004 alla ‘Limonia’ di Villa Fidelia (evento patrocinato dalla Regione Umbria), e l’inserimento nel cartellone ufficiale dell’Estate Spoletina per ben due anni di seguito.

Chi è il Mauro Bordini artista?

“Innanzitutto volevo ringraziare la redazione di Tuttoggi.info per la preziosa opportunità di questa intervista; c’è una frase che penso rappresenti la mia vita artistica, ed è una citazione del pittore statunitense Edward Hopper: ‘se potessi dirlo a parole, non ci sarebbe alcun motivo per dipingere.’

Mi piace intendere la pittura come un’arte creativa, di evasione, senza però mai perdere di vista la realtà; perché è proprio da questa che traggo la mia ispirazione quando dipingo i miei quadri.

La vivacità dei colori spesso tende a far credere che nella mia arte ci siano solo gioia e sentimento positivo, invece, molto spesso le mie opere sono il riflesso di ansie e problematiche travestite da cromie esuberanti.”

Lei rivendica con forza le sue origini da pittore autodidatta: si ricorda di come e perché iniziò a dipingere?

“Iniziai a dipingere in tenera età, alle elementari, grazie al maestro Calai che mi scelse insieme ad altri bambini per ‘colorare’ alcune sezioni dell’edificio scolastico.

Ma fu a Parigi, negli anni ‘90, che rimasi folgorato dagli impressionisti del Museo d’Orsay ammirando in particolare i dipinti di Van Gogh e Renoir; successivamente mi innamorai follemente di Matisse e di Pablo Picasso, grazie ai quali iniziai a dipingere con tecnica a olio.”

Ci racconti il suo stile di pittura e cosa vuole trasmettere attraverso i suoi quadri

“Un deciso condizionamento per il mio stile di pittura lo avuto grazie ai numerosi viaggi in America latina; soprattutto mi riferisco a quando nel 1991 visitai Salvador de Bahia, in cui spesso mi imbattei nella folta e numerosissima comunità afroamericana del posto, che mi rimase nella mente e nel cuore soprattutto per il modo con cui riuscivano a integrare le loro splendide tradizioni religiose afro con il luogo che li circondava.

Da qui iniziai a dipingere figure ancestrali tentando di ricondurle il più possibile alla società contemporanea e soprattutto all’uomo moderno, con tutte le paturnie e le ansie che egli si porta appresso dalla notte dei tempi.

La mia è una pittura non palese, di difficile interpretazione se non si scava nella mia sfera privata ed emotiva, ma con questo non voglio assolutamente avere la presunzione di trasmettere nulla a nessuno…

Certo, io nella vita ho scelto di dipingere, e la soddisfazione sta anche nell’apprezzamento che il pubblico mi manifesta nel guardare un mio quadro, ci mancherebbe altro; ripeto però, lungi da me il voler imporre un concetto statico e ben definito, e se ci pensiamo un attimo, è proprio questa la meraviglia dell’arte, che lascia all’interpretazione ogni sorta di volo pindarico.

Io poi, a dirla tutta, non credo molto ai giudizi dei critici che ci raccontano di cosa quell’artista volesse trasmettere con quella sua opera e via dicendo… perché un pittore è un grande mistificatore; con un pennello lui trasforma la realtà e la modella a seconda del suo stato d’animo generale o di quel preciso istante in cui crea, non credo sia davvero così facile dare un’interpretazione oggettiva di un quadro.

Tornando al mio stile di pittura, non ho dei canoni definiti nella mia pennellata; a modo mio mi servo del cubismo, dell’espressionismo e del fauvismo.

Questo mi da la possibilità di avere uno stile marcato, riconoscibile e molto personale; per esempio utilizzo spesso gli attributi sessuali all’interno dei miei dipinti e lo faccio non per dare vita a delle simil orge, bensì, come accennavo prima, mi rifaccio sempre a quelle figure ancestrali che sin dall’antichità usavano il nudo per comunicare attraverso i loro disegni.

Per me il sesso nell’arte è da ascrivere come un atto di cui servirsi per tramandare la cultura di un popolo, o di una società, e non per il mero piacere.”

“La Bolla” è il nome della sua ultima opera; è vero che questo dipinto nasce a “causa” della pandemia legata al Coronavirus?

“Sì, il mio ultimo quadro racconta anche della recente pandemia legata al Covid-19. Ho immaginato una sottile pellicola, o se vogliamo anche un vetro molto fino, al cui interno si trova l’intera umanità costretta a rimanere segregata in attesa di notizie confortanti.

Ma “La Bolla” è anche un quadro di libertà dove possiamo immaginare qualsiasi cosa al suo interno; un ricordo, un dolore, o se vogliamo un’aspettativa, un ambiente permeabile dove la vita resta comprensibile a seconda delle nostre esigenze del momento.

Lei è di Spoleto, la città del Festival dei Due Mondi: un suo personale pensiero sulla situazione artistica e culturale della città ducale

“La mia città vive sostanzialmente le stesse criticità culturali che sta vivendo la nostra nazione; secondo il mio punto di vista la tecnologia non sta aiutando molto la ’bellezza’ fisica delle opere d’arte, poiché sempre più persone tendono ad accontentarsi dello schermo di un telefonino o di un pc piuttosto che entrare in un museo o in una galleria d’arte.

Perché sta accadendo questo? Per pigrizia e soprattutto per un discorso di sottovalutazione dell’importanza della cultura che a parer mio non scalda più i cuori come in passato, quando nella lentezza risiedeva la quotidianità dell’umanità: oggi devi sbrigarti anche per prendere un caffè al bar, come puoi pensare di rimanere immobile per ore a osservare un quadro e coglierne l’essenza?

Il Festival dei Due Mondi poi, se mi permettete, non è più quella fucina di talenti semisconosciuti di una volta. Basti ricordare di quando il Maestro Menotti portò a Spoleto il rivoluzionario Christo o il ballerino Joaquin Cortés, scommettendo sul loro estro e dando un’identità precisa al Festival di quegli anni in cui davvero si veniva a Spoleto per scoprire chi poi un giorno sarebbe diventato un artista famoso.

Oggi i direttori artistici fanno altre scelte, condivisibili o meno, ma io che mi ritengo un nostalgico non posso che rievocare i ricordi di quegli anni ormai perduti che spero possano tornare anche in futuro.

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