Roberto Saviano sbarca al Festival dei 2 Mondi di Spoleto per la Prima de “La paranza dei bambini”, tratto dall’omonimo romanzo, il terzo dopo Gomorra e Zero-Zero-Zero, riadattato per il teatro insieme al regista Mario Gelardi.
Sul palcoscenico va così in scena una storia che, ancor prima di denunciare le squallide e criminali azioni della camorra, mette a nudo la colpa del Paese che non vuol vedere. La paranza di quegli italiani che riescono con sconvolgente naturalezza a voltarsi dall’altra parte anche di fronte all’uso dei bambini per gli scopi della criminalità organizzata.
Nel gergo camorristico “paranza” sta a significare la gang criminale, che sa come attirare i più giovani nella propria rete. Come i marinai pescano di notte affidandosi alle lampare, la cui luce richiama i pesci dai fondali scuri in cui si sono rifugiati per incastrarli nella rete, così i camorristi attirano i giovanissimi, presi dalle famiglie più o meno abbienti, dai quartieri dove lo Stato è meno presente in ogni senso (dalla scuola al controllo del territorio), con l’illusione di fare presto soldi e conquistare il potere.
In scena – Saviano e Gelardi portano così in scena la storia (realmente accaduta) di 10 bambini, tra i 10 e i 20 anni di età. C’è Copacabana, il boss che pensa di trasferirsi definitivamente in Brasile perché stanco della latitanza. E il suo fedele White, per la fezza bianca dei capelli che lo rende simile al perfido Jocker, che intravede la possibilità di sostituire il capo. C’è Don Vittorio, altro boss che “e creature” le sfrutta anche per i suoi istinti sessuali, ma che dalla sua Napoli non vuol andare via, pur costretto a rimanere blindato in casa per evitare la cattura. E ancora 5 adolescenti, che individuano in Maragià il loro capo, perché è l’unico che “ha studiato” un po’, che sa come districarsi e poter scalare la vetta. A chiudere il ‘cerchio’ due bambini: Dumbo, costretto a servire, in tutti i sensi, Don Vittorio, e il fratellino di Maragià che sogna di entrare nella paranza per seguire le gesta dell’adorato fratello. Soldi, vestiti “buoni”, scarpe da 200 euro, donne, champagne, non sono facili da avere e mantenere. Non può bastare lo spaccio del fumo: così arriva quello della droga pesante, le armi per fare rapine o per liquidare dalla faccia della terra i nemici. Ma anche quegli amici che hanno infranto la “regola”: come Dumbo che pagherà con la vita l’aver mandato la foto del proprio pene alla madre di White. E toccherà a Maragià eseguire, dilaniato dalla scelta tra l’ubbidire all’ordine o rinunciare al successo e alla paranza, inconsapevole che il suo gesto innescherà altro sangue. Non si vede ma è presente ugualmente la famiglia: la figura del padre che per le sue difficoltà non riesce a imporsi sui figli; quella della madre, preoccupata per il destino dei figli che non potrà cambiare.
Un successo – vale citarli questi giovani del Nuovo Teatro Sanità, istituzione che si regge senza il minimo finanziamento pubblico, capaci di far rivivere in scena, ma anche tra il pubblico, e criminali e perverse azioni della mafia: Vincenzo Antonucci, Luigi Bignone, Carlo Caracciolo, Antimo Casertano, Riccardo Ciccarelli, Mariano Coletti, Giampiero de Concilio, Simone Fiorillo, Carlo Geltrude, Enrico Maria Pacini.
A loro, al termine dello spettacolo, Andrea Miccichè di NuovoImaie (Istituto mutualistico per la tutela dei diritti degli artisti interpreti esecutori), accompagnato dal Vice presidente del Festival Dario Pompili, ha consegnato una borsa di studio ciascuno.
Bella la scenografia di Armando Alovisi, divisa tra i tetti dove si impara a sparare, e i bassi dei quartieri dove le vite di tanti, troppi giovani durano il tempo di una fiammata.
Sul palco arriva anche Saviano, visibilmente emozionato. “La storia di Dumbo è la storia del Paese che non vuol vedere; eppure è accaduta. Stare in questa chiesa sconsacrata, in questi luoghi del terremoto, fa pensare che c’è un’unica possibilità per ricostruire questo meraviglioso e dannatissimo Paese: dare fiducia al talento, prenderci ognuno di noi un pezzo di responsabilità nel vedere queste storie, sentirle, raccontarle e quindi trasformarle. Se queste storie sono ora anche vostre, allora siamo riusciti nel nostro intento” ha concluso Saviano.
Palco dell’antimafia – continua così la tradizione del Festival di dare voce e palchi alle storie più maledette e contemporanee. Una sezione, avviata nel 2010 con “Per non morire di mafia” tratto dal libro dell’allora capo della Procura nazionale antimafia Pietro Grasso, che forse meriterebbe spazi più ampi per consentire un maggior afflusso di pubblico (la chiesa di San Simone contiene appena 150 posti). La “paranza dei bambini” di Saviano replicherà fino a lunedì 3 luglio. Un’occasione per non girare ancora la testa dall’altra parte.
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