RANIERI DI CAMPELLO (2): UN EROE COL COLBACCO (1908 – 2008 - Le cronache del tempo) - Tuttoggi.info

RANIERI DI CAMPELLO (2): UN EROE COL COLBACCO (1908 – 2008 – Le cronache del tempo)

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RANIERI DI CAMPELLO (2): UN EROE COL COLBACCO (1908 – 2008 – Le cronache del tempo)

Mer, 10/09/2008 - 13:00

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di Antonio Spinelli

(Gente – giugno 1959)

Era l'estate del 1942. Sull'immenso arco del fronte orientale erano schierati soldati di mezza Europa. Pur cominciando a farsi fluida, la situazione era ancora favorevole agli eserciti dell'Asse, che con una serie di folgoranti vittorie si erano inoltrati per centinaia di chilometri in territorio sovietico. L'VIII Armata Italiana, agli ordini del generale Gariboldi, aveva posto il suo Quartier Generale e i suoi uffici a Millrerovo, una cittadina al centro dell'Ucraina, presso la quale si estendeva uno dei tanti campi di concentramento per prigionieri russi. Un giorno, il Maggiore del Savoia Cavalleria Ranieri di Campello, olimpionico ai Giochi di Berlino, ora addetto all'ufficio informazioni dell'Armata, ebbe una strana proposta di colloquio: l'ATAMAN dei Cosacchi del Kuban desiderava parlargli Quello di Ataman è un grado elevato: corrispondente, presso a poco, a colonnello. Un Ataman comanda le SOTNIE, ossia reparti di cavalleria Cosacca che contengono ciascuno un centinaio d'uomini (SOT in russo, significa CENTO). Nel campo di prigionia di Millerovo di Cosacchi ce n'erano a migliaia, ma a quell'epoca soltanto pochissimi venivano impiegati come interpreti o spie, perché entrambi i “mestieri” riuscivano sgraditi a uomini di quella specie. IL PRIMO COMBATTIMENTOIl maggiore di Campello si recò al campo, e l'Ataman impalato sull'attenti, gli disse: “Signor Ufficiale, io e i miei soldati vogliamo combattere per la Russia, contro Stalin. Giuriamo di comportarci con onore e fedeltà Sappiamo che Voi siete un grande cavaliere. Comandateci”. Non aggiunse altro, ma alle sue parole, che parvero sincere il nostro “Ufficio I” dette molta importanza, giacché in Ucraina il sentimento anticomunista e l'aspirazione all'indipendenza avevano vecchie radici. Nei primi mesi di guerra, gli stessi tedeschi vi erano stati accolti come liberatori e centinaia di migliaia di soldati si erano loro arresi, qualche volta senza nemmeno combattere. Soltanto gli innumerevoli errori psicologici e le crudeltà perpetrate più tardi avrebbero rovesciato una situazione che, sfruttata con intelligenza avrebbe potuto avere utilissimi sviluppi. Gli Italiani, però, erano ben voluti. La domanda del vecchio guerriero venne perciò presa in considerazione ed accolta. Il conte Ranieri tornò al Campo, radunò, col beneplacito tedesco, tutti i Cosacchi che vi languivano, cavalieri del Don, del Kuban, del Dnieper, e un giorno, riuniti in quadrato, domandò chi di essi voleva combattere contro il bolscevismo, per la patria Russa. Rispose un urlo immenso: cinquemila presenti, cinquemila volontari. Ne furono scelti accuratissimamente un migliaio: alloggiati in quartieri migliori, vennero affidati al maggiore di Campello, che ne diventò il Comandante segreto. Ora bisognava armarli, equipaggiarli, dar loro la cosa più importante: un cavallo. I fondi? Il Comando d'armata li chiese a Roma e Roma rispose che andava bene, che prelevassero pure MILLE lire per la bisogna.Davanti all'incredibile risposta il Maggiore non si perse d'animo: i volontari ebbero l'equipaggiamento, una lunga sciabola ed anche il loro caratteristico colbacco. Cavalli non ce n'erano, ma di questo i Cosacchi non si preoccuparono: “Se ci lasciate andare, li procureremo noi”. Partirono liberi (di Campello garantì per loro) e tutti tornarono liberamente, nessuno escluso, con un cavallo. Il loro primo impiego, mentre veniva istruito il grosso, fu quello di esploratori oltre le linee. Spesso Campello era con loro, e fu di quel tempo la sua prima straordinaria avventura. Erano i tempi della grande arsura, e quando i suoi uomini andarono per Lui a cercare acqua nelle isbe (tipiche abitazioni dei contadini russi, fatte con tronchi di abete e tetto di paglia), i contadini si accorsero che avevano gavette italiane, ma tacquero. Un russo però diede l'allarme. Campello, nascosto in un carro di fieno, saltò fuori e ingaggiò il combattimento. Fu uno scontro rapido, violentissimo, ma i cosacchi riuscirono a riportare il Comandante incolume alla base. Spesso i cosacchi operavano da soli: andavano, tornavano, partivano ancora per le loro disperate missioni, Campello ne aveva fatto un Corpo meraviglioso. Non uno di essi disertò: se qualcuno non tornò al reparto fu perché era stato ucciso o fatto prigioniero. Sorte, questa, di gran lunga peggiore. Agli inizi dell'inverno le bande erano pronte per l'impiego, ma Millerovo, intanto era stata perduta dalle nostre truppe: l'Armata romena, sulla destra del nostro schieramento, era stata travolta dai Sovietici. L'epopea di Stalingrado si era tragicamente conclusa. La situazione non era più favorevole agli eserciti antibolscevici e fatalmente precipitò. Ma la fedeltà dei Cosacchi di Campello non venne meno: fu allora, anzi che entrarono in azione, sulla steppa gelida e immensa, i mille cavalieri del Don, del Kuban, del Dnieper, col loro comandante. A loro erano stati affidati i compiti più duri contro le puntate dei carri armati sovietici, contro le infiltrazioni, come elementi di sorpresa, di sabotaggio, di rottura. Morivano col nome della Santa Russia sulle labbra senza arrendersi, senza disertare. Il giuramento fatto agli Italiani l'avrebbero rispettato per sempre. Ad una di queste sortite, in un momento di crisi del nostro schieramento, il maggiore di Campello volle ancora una volta partecipare. Che giorno era? impossibile dirlo, poiché Egli non ne volle mai parlare. Quale zona? Neppure il generale Gariboldi lo ricorda esattamente: molto probabilmente quella di Kransky Lucht. La cosa è certa: le Sotnie cosacche incontrarono i sovietici e li affrontarono a sciabola sguainata, inaudito coraggio: in testa il maggiore di Campello (Ranieri apparteneva al Savoia Cavalleria e non sapeva darsi pace di non aver potuto partecipare con il suo reggimento alla leggenda ria carica di Isbuschenkij) Gridò: “AVANTI, SAVOJA ” e i suoi uomini risposero con un urlo, facendosi il Segno della Croce: forse l'ultima carica della guerra, ma degna delle prime e delle più eroiche.

LA TRAGICA CAVALCATA. D'un tratto si vide il Comandante abbandonare le briglie del cavallo. Poi l'animale cadde sulle ginocchia, nitrendo dolorosamente. Accorsero alcuni Cosacchi: il cavallo era stato colpito inesorabilmente; di Campello era svenuto. Fu soccorso: aveva un braccio spezzato da due pallottole e ferite in tutto il corpo. Stava calando la sera: un gruppo di cavalieri si strinse intorno a Lui, un'altro corse attraverso la pianura per trovare una slitta. Su di essa il Comandante Italiano venne adagiato per essere portato verso le linee amiche, mentre intorno a Lui si formava un cordone di fedelissimi, e la battaglia continuava. Dopo tre ore, a quattrocento metri ecco apparire quattro carri armati sovietici, due a destra, due a sinistra, paralleli alla slitta che correva con il suo carico sanguinante. I sovietici cominciarono a sparare contro di essa. Allora accadde qualcosa di stupendo: i Cosacchi cominciarono a intessere un fantastico carosello intorno al loro comandante, a frotte in ordine sparso, attorno alla slitta che sembrava volare sul terreno. Cadevano i cavalieri, facendo scudo del loro corpo al comandante; ma le linee vennero raggiunte e di Campello fu salvo. Ebbi la ventura di visitarlo pochi giorni dopo in un ospedale da campo. “Qualche giorno prima”, mi ha ora ricordato il Comandante dell'Armata, generale Gariboldi, “ero andato anch'io da Lui.Soffriva terribilmente, ma mi disse che pensava sempre ai suoi Cosacchi”. A me Ranieri mormorò che la morte non lo aveva voluto. E fu l'ultima volta che lo vidi accennare (e nessun altro l'udì) alla sua straordinaria avventura coi Cosacchi Bianchi. Perché Ranieri di Campello era schivo come i veri eroi, semplice come gli aristocratici autentici.”.

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Roberto De Mattei

dal Messaggero Veneto (3 aprile 1996)

Piccola storia sconosciuta Fronte del Don: un conte italiano e i suoi cosacchi Tra le pagine sconosciute della II guerra mondiale, ve ne è una in cui il valore italiano si manifestò in tutta la sua originalità. Protagonista un ufficiale italiano, maggiore nel Savoia Cavalleria, il conte Ranieri di Campello. Ben prima dei “dannati” di Vlassov, che affiancarono la Wehrmacht contro Stalin, un gruppo di squadroni cosacchi anticomunisti combatté sotto il suo comando, inquadrato come “banda irregolare” nell’Esercito italiano. Ranieri di Campello era nato a Spoleto nel 1908, figlio del conte Pompeo, senatore del Regno, e della principessa Guglielmina Boncompagni Ludovisi, Dama di Corte della Regina Elena. Aveva passato la sua giovinezza tra la casa natale di Campello sul Clitumno, all’ombra delle celebri fonti, e il Quirinale, dove per sei mesi l’anno i genitori prestavano servizio a Corte. Seguendo le tradizioni paterne, era quindi entrato nell’Accademia di Modena e poi dopo la scuola di Pinerolo, in Savoia Cavalleria, come ufficiale in servizio permanente. Appassionato di equitazione si era distinto fin da giovanissimo come uno tra i migliori cavalieri italiani. Partecipò nel 1936 alle Olimpiadi di Berlino per il completo, ottenendo brillanti successi in tutta Europa, tra cui, nel 1939, il prestigioso premio Caprilli ad Aquisgrana.Ranieri di Campello non disdegnava la vita brillante, come ricorda Giorgio Nelson Page, nell’Americano di Roma, ma come molti giovani aristocratici della sua generazione, era profondamente attaccato ai valori tradizionali, per lui riassunti dalla figura del Sovrano. Addetto militare a Bucarest, allo scoppio della guerra era stato destinato dai servizi segreti ad Algesiras, di fronte a Gibilterra, dove un osservatorio del SIM, installato su di una nave semiaffondata, trasmetteva le necessarie informazioni operative a Valerio Borghese e ai nostri sommergibilisti.Questo ruolo in seconda linea non si confaceva però a Campello che, nella primavera del 1942, chiese ed ottenne di raggiungere il Savoia Cavalleria sul fronte del Don, dove era dislocata l’Ottava Armata italiana. Quando giunse trovò un campo di concentramento in cui erano ammassati centinaia di prigionieri cosacchi. Arruolati a forza nell’Armata rossa, essi chiedevano di prendere le armi contro Stalin, ma gli italiani, e soprattutto i tedeschi, ne diffidavano.Campello, ben valutando le qualità di questo popolo, che già aveva costituito una indomabile “Vandea” russa contro i bolscevici durante la guerra civile, propose con insistenza ai suoi superiori di costituire, tra i volontari cosacchi, un gruppo di squadroni di cui si assumeva tutta la responsabilità. Il “Gruppo Squadroni Cosacchi Maggiore Campello”, fu formato a metà del mese di luglio del 1942. Essi dipendevano dal Comando dell’8 Armata Italiana, e più precisamente dall’Ufficio Informazioni.I cosacchi, che passavano la loro vita a cavallo, videro con stupore un ufficiale italiano caracollare nella steppa con altrettanta disinvoltura dei loro atamani. La scuola di Pinerolo e l’esperienza nei concorsi ippici di tutta Europa faceva di Campello un cavaliere che non aveva nulla da invidiare ai più consumati capi cosacchi. Ma ciò che soprattutto Campello aveva in comune con i cosacchi erano quei sentimenti profondi che uniscono i cavalieri di tutto il mondo: il coraggio,il sentimento dell’onore, la generosità, il disprezzo della morte.Il “Gruppo Campello” si presentava come un’autentica formazione, con le tipiche uniformi cosacche, colbacchi e sciabole. Comprendeva una fanfara a cavallo, ed era composto da tre sotnie (squadroni). L’unico ufficale italiano era il maggiore di Campello, che sotto il pastrano cosacco indossava l’uniforme grigioverde. I quadri erano formati da ufficiali e sottufficiali russi, ai quali veniva riconosciuto il grado. I cosacchi di Campello penetravano audacemente all’interno delle linee russe, compiendo missioni esplorative, ed incursioni in campo aperto. In una di queste azioni, in una dacia 30 km. all’interno delle linee russe, Campello venne ferito, ma fu raccolto e caricato su di una slitta dai suoi cosacchi. Per difendere il loro comandante, i cosacchi formarono un cerchio di protezione attorno alla slitta che ripiegava nella notte verso le nostre linee, galoppando attorno ad essa e sparando furiosamente contro il nemico. In un’altra occasione, un uomo si avvicinò a Campello per ucciderlo a bruciapelo: aveva puntato la pistola quando il capitano Vladimir Ostrowsky gli si buttò addosso, facendo cadere la rivoltella nella neve. Questo episodio, come molti altri, dimostra i sentimenti di affetto e di stima che i cosacchi provavano verso il loro comandante.Nella medaglia d’argento che fu conferita al maggiore di Campello nel gennaio 1943, si legge che egli “in ogni incarico era primo nell’offerta e nell’esempio. Guidava il gruppo in situazione difficile per insidie nemiche, clima e disagi, in modo esemplare. In ogni occasione ha dato di più di quanto richiesto. Ferito, continuava a guidare il gruppo dando saggie disposizioni per sfuggire all’accerchiamento”Con la caduta di Stalingrado anche i cosacchi del Savoia conobbero la tragica ritirata di Russia. Nell’agosto del 1943, anch’essi giunsero in Italia con le truppe dell’Ottava Armata. Tra la Carnia e la Carinzia affluivano intanto le migliaia di cosacchi che si erano schierati con la Wermacht. Sul Don, accanto al maggiore Campello, si era battuto, alla testa di un gruppo di squadroni cosacchi anche il colonnello tedesco Helmut von Pannwitz, che verso la fine dell’agosto 1943, era arrivato a disporre di una divisione perfettamente organizzata su tre reggimenti di cavalleria. Dall’autunno del 1944, si era formata inoltre la ROA, la Armata Russa di Liberazione del celebre generale Vlassov. Sia Vlassov che Pannwittz, consegnati dagli inglesi a Stalin, furono processati e uccisi a Mosca.Le sorti dell’armata cosacca furono infatti “negoziate”, secondo lo “spirito di Yalta”, tra le forze armate britanniche e russe. La riconsegna dei cosacchi a Stalin, in spregio alle convenzioni di Ginevra e ad ogni legge morale, rappresenta uno degli impuniti “crimini di guerra”di questo secolo su cui, negli ultimi anni, Lord Nicholas Bethell (The Last Secret, Forcible Repatriation to Russia 1944-47, 2 ed. Penguin, London 1995 (1974)) e il conte Nicholas Tolstoy hanno sollevato il velo (Victims of Yalta, Corgi, London 1979). Il maggiore di Campello, che nel febbraio del ‘43 era stato riportato ferito in Italia, l’8 settembre scappò dal Celio dove era ricoverato e traversò le linee per raggiungere il Regio Esercito a Sud. Nuovamente ferito a Montecassino, nel 1946 fu tra coloro che rifiutarono di giurare fedeltà alla Repubblica. Venne radiato dall’esercito, come il suo comandante in Savoia Cavalleria, il leggendario colonnello Bettoni. Morì nel 1959, circondato dalla fama di valoroso combattente e di gran signore. Nella “petite histoire” dell’eroismo italiano, la cavalleria cosacca del conte di Campello rappresenta oggi un episodio da non dimenticare.


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