“Lei cerca di aggiustare le cose” dice Riccardo Menenti rivolgendosi al procuratore reggente Antonella Duchini che lo sta interrogando, “Questo è un oltraggio – risponde Duchini – Lei se ne andrà a Firenze per l’oltraggio fatto in quest’aula”. E’ uno dei passaggi più tesi della mattinata in aula, ma non il solo. Oggi è stato il giorno in cui i due imputati, padre e figlio, hanno deposto in aula non avvalendosi della loro facoltà di non farlo, nel processo per la morte del giovane Alessandro Polizzi.
Dove dormì l’imputato la notte dell’omicidio?
– “Usciti dall’ospedale circa alle 21.30 di sera andammo a casa in via Volumnia a Ponte San Giovanni e lì rimanemmo insieme, mia moglie per dormire prende il sonnifero e andò a letto e io rimasi sul divano. Ero agitato perché erano successe varie cose oltre alle aggressioni e a Valerio, la morte di mio padre, di mia zia e poi mia cugina si suicidò”. Ma il pm chiede le date ed emerge che questi fatti si erano verificati l’anno precedente.
– “Le aggressioni e tutto quello che è avvenuto hanno peggiorato il mio stato d’animo – continua Riccardo Menenti – Tiziana quindi è andata a letto. Io stavo nel divano e cercavo di dormire, anzi dal 23 marzo in poi (data dell’ultima aggressione, ndr) non ho dormito quasi più. Tutto il mio stato d’animo era abbastanza alterato. Decisi di andare a casa del Polizzi per chiarire questa vicenda”.
– “Quindi lei da Ponte San Giovanni va a casa di Polizzi?”, chiede il pm e continua: “Al Gip nell’interrogatorio del 12 aprile 2013 ha detto che avete dormito a Todi ma il 13 maggio aveva detto al pm che era partito da Todi e che sua moglie era rimasta a Ponte san Giovanni”. Ma oggi Riccardo Menenti cambia di nuovo e dice di essere partito da Ponte San Giovanni. “Perché al Gip avete detto di aver dormito a Todi?” e Riccardo risponde così:
– “Perchè quando seppi della morte del ragazzo sono entrato nel panico e ho subìto una sorta di delirio e ho fatto delle cose incoerenti”.
Poi la difesa affonda il colpo: “Quindi al Gip ha detto una cosa che non era vera?”,
– “Si” ammette Menenti.
Viso scoperto o coperto?.
– “Ho sceso la scala avevo un piede di porco e dei guanti e avevo due cappucci quello del giaccone e quello della felpa, pioveva. Avevo il viso scoperto”.
– “Ma l’avrebbero riconosciuta” dice il pm.
– “Scusi lei non c’era – risponde Menenti – io c’ero era tutto buio come facevano a riconoscermi? Ho lavorato nel settore degli infissi, conosco la procedura e so aprire un infisso in alluminio. Entro nel palazzo faccio le rampe arrivo in cima e do 3 o 4 spallate alla porta e entro in casa”. Riccardo dice che il figlio non aveva le chiavi del portone, ma Duchini afferra le dichiarazioni rese durante l’interrogatorio di Valerio che dicono che aveva fatto le copie. “Questa non è la mia versione, questa è la verità”, asserisce Menenti, ma il pm sigilla con una frase che rimarrà nella storia di questo processo
– “Non è la verità perchè lei non l’ha detta mai”.
E Menenti procede nel racconto: “Cercai di disarmarlo e nella colluttazione durante questa fase sentii un colpo”– i familiari di Alessandro si mettono la testa tra le mani – “Dal filo della porta ho visto una cosa metallica che sbordava”.
– “Quando lei scappa la figlia dei vicini vede la persona che scappa e la ragazza ci dice che il volto era coperto” incalza il pm.
– “Io avevo il cappuccio, testa china verso il basso poi avevo il cappuccio nero sottostante. Poi avevo il sottocasc…. emh il collarino (Menenti sbaglia e cita il sottocasco che ha negato di aver indossato, ndr) che mi copriva il collo”.
– “Ha detto sottocasco”, fa notare il pm,
– “Mi sono sbagliato”, risponde Menenti.
La pistola.
– “Ha visto che era una pistola nera, non cromata?” chiede il pm,
– “Dalle foto ho visto che è scura ma da quanto ho visto dalle carte è una pistola che non ha più la pulitura originale”.
– “Lei dice di aver visto un riflesso perché entrava uno spiraglio di luce da dove proveniva?”
– “Dall’esterno”, risponde Menenti. E qui si apre un altro capitolo. Il portone dell’appartamento di via Ricci si apre con difficoltà, per entrare nell’appartamento, ha spiegato chi ci è stato, bisogna necessariamente chiuderselo alle spalle perché un mobiletto impedisce un ingresso agevole, e qui ci si chiede allora come fosse possibile che la luce filtrasse da un portone che va riaccostato per entrare, tanto da far brillare una pistola.
E poi il pm incalza: “Quindi se lei sa che c’è la luce va dentro a volto scoperto?” e Menenti risponde:
– “Lei cerca di aggiustare le cose” e arriva la tensione, il pm risponde:
– “Questo è un oltraggio, lei se ne andrà a Firenze per l’oltraggio fatto in quest’aula”.
I colpi alla cieca.
– “Io mi sono sentito toccare la parte bassa delle gambe, stavo ancora lì alla soglia della porta e d’istinto mi sono girato e ho dato tre quattro colpi alla ragazza. E poi sono andato via perché si è accesa la luce delle scale”, racconta Menenti.
Stivali o timberland?
Anche qui ci sono due versioni. Al Gip Menenti rispose che aveva le scarpe a punta: “Avevo le scarpe a punta le porto da 30 anni, forse sono l’unico in Umbria” rilegge il pm dai verbali di interrogatorio di Menenti. Oggi invece dice che portava le Timberland.
Il piede di porco nel camino.
– “Tutto quello che indossavo l’ho bruciato nel camino del casale di Todi, ho buttato tutto quello indossavo e anche il piede di porco”.
– “Lei pensava che sarebbe bruciato?”
– “Ho messo tutto lì d’istinto poi mi sono lavato e mi sono rivestito e sono tornato a casa a Ponte San Giovanni. Quindi lasciando tutta la roba ardente nel camino. Ci ho messo anche del legno”. Ma nel camino quel piede di porco non viene trovato il giorno seguente dalla polizia, Menenti dice di averlo spostato lui l’indomani, ma quando se l’indomani lui è tornato a Todi soltanto quando la polizia lo ha prelevato in ospedale dal figlio? Dove trovarlo lo avrebbe poi indicato soltanto qualche giorno dopo, agli inquirenti, per mezzo di una lettera.
Le domande del giudice.
– “Se uno voleva solo chiarirsi avrebbe bussato o suonato il campanello e invece?” chiede il presidente Mautone all’imputato,
– “Io volevo fare in modo che la cosa finisse lì, non ho assistito all’intervento di qualcuno in nostro aiuto dopo le botte subite da Valerio, allora come padre mi sono sentito inerme, la testa m’ha detto che dovevo fare qualcosa per fermare quello che stava accadendo”.
– “Quindi lei entra in casa sfondando la porta, quante spallate?”
– “Almeno tre”
– “Vede questo bagliore?”
– “Si”
– “E il piede di porco lo ha utilizzato?”
– “Io non mi ricordo sinceramente, sicuramente l’ho utilizzato”
– “Verso il ragazzo?”
– “Si”
– “E anche verso la ragazza?”
– “Mi sono sentito toccare e quindi d’istinto credo di aver dato tre 4 colpi con l’arnese”
– “Quando già il ragazzo era a terra e non reagiva più?”
– “Si”
– “Dal momento dell’esplosione saranno passati 10 secondi e in questi 10 secondi lei ha menato colpi alla cieca?”
– “Si ma non li ho mai portati con estrema violenza per fare danni”, a questo punto la madre di Alessandro si alza e esce dall’aula e dice basta.
– “Ma lei quando entra e vede questo bagliore e pensa che è qualcosa che le può essere di offesa, perchè non fugge se sente il pericolo e affronta il pericolo pensando di disarmarlo?”
– “Ho pensato che ormai ero all’interno e se era un’arma, potevo solo affrontarlo”.
Insomma Menenti descrive la sua decisione come conseguente ad “un accumulo, un insieme di sensazioni”, “avevo paura”, dice, “Io sono andato per menarlo poi come sarebbe andata non lo so, questa era la mia intenzione. L’ho disarmato l’arma mi ha sbattuto in fronte e poi è caduta a terra dopo che il colpo era esploso”.
– “Valerio le ha mai chiesto di liberarlo dalla minaccia di Polizzi?” Chiede l’avvocato Lupo della difesa,
– “No”, risponde Menenti, “Comunque vada lui non ha mai chiesto nulla. Valerio l’ha saputo in cella come erano andate le cose”.
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