Occhio a Facebook, lavoriamo in Regione. Polemiche sulla delibera con la quale la Giunta regionale dell’Umbria ha introdotto la “Social Media Policy” della Regione Umbria, cioè l’insieme delle regole e delle norme di comportamento per la gestione delle pagine social dell’Ente, ma anche del comportamento che dipendenti, collaboratori, fornitori e addirittura chi ha incarichi istituzionali deve tenere sui propri profili privati. Una forma di censura, quest’ultima, che l’Esecutivo si è detto pronto ad eliminare, imputando ad un errore quel riferimento ai rappresentanti istituzionali.
Ma di errori, a ben vedere, ne emergono diversi. A cominciare dal copia e incolla fatto maldestramente dalle policy della Asl Umbria 1 e di Umbria Salute. Tanto che in un passaggio si fa addirittura riferimento alle procedure per la concessione del logo della Asl (e non della Regione).
Ma in generale il provvedimento, che si inserisce in un tema molto spinoso tra la libertà di espressione sancito dall’art. 21 della Costituzione e la “lealtà” di un dipendente all’azienda per la quale lavora (concetto, questo, molto discusso anche nel settore privato) pare avere molte falle. Tanto che le opposizioni in Consiglio, che con il portavoce Paparelli hanno evidenziato errori e incongruenze, non si accontentano dell’aggiustamento sul passaggio relativo ai rappresentanti istituzionali, ma chiedono che la delibera venga revocata.
“Viene fatto divieto – lamenta Paparelli – di diffondere informazioni, commenti o immagini, atti a ledere “genericamente” l’immagine dell’Amministrazione regionale, ovvero della maggioranza che la governa”.
C’è poi il problema di chi dovrebbe essere chiamato a dettare la linea e a verificare eventuali comportamenti inadeguati. Nella policy è prevista l’istituzione di un Comitato di Redazione composto dal responsabile Comunicazione, dai responsabili delle sezioni che si occupano di comunicazione, dagli operatori che si occupano di comunicazione web e dai membri del social media team. Insomma, la comunicazione istituzionale viene commissariata – lamentano le opposizioni – da soggetti esterni all’Ente.
Perché nella policy c’è anche un paragrafo, il 3.1, che riguarda l’uso privato dei social media. Insomma, come un dipendente o un collaboratore della Regione si comporta quando posta contenuti sul proprio profilo o ne commenta altri.
Così recita testualmente il vademecum: “Eventuali profili del personale della Regione Umbria, collaboratori e consulenti, sono gestiti a titolo personale e in autonomia, nel rispetto del Codice di comportamento dell’Ente e delle indicazioni presenti in questo documento. In ogni caso, vanno sempre tenute presenti le seguenti regole comportamentali:
Appunto. C’è il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici. E comunque c’è sempre il Codice penale, nei casi di reati commessi sui social.
Del caso si è interessata anche la senatrice pentastellata Pavanelli, che parla di “politiche liberticide care alle destre italiane”. In realtà quello del controllo sui social (per i dipendenti) non è solo un problema delle amministrazioni governate dal centrodestra, basti ricordare le polemiche a Milano per il provvedimento assunto lo scorso aprile dalla Giunta Sala a Milano. In Umbria, sembra per errore, il provvedimento ha finito per riguardare anche chi ha incarichi istituzionali.
“Al di là della gravità intrinseca di questo provvedimento – aggiunge l’esponente pentastellata – mi domando se la Regione pagherà qualcuno per controllare gli account social di ogni lavoratore e collaboratore”.
Già. Perché oltre al merito del provvedimento, operativamente ci si domanda: chi dovrà controllare, e in che modo, i commenti fatti privatamente da circa 3 mila dipendenti della Regione tra Giunta, Consiglio, partecipate, collaboratori e fornitori a vario titolo?