Dopo anni di avvicinamenti, annusamenti poco convinti, e ipotesi accennate e dal vento trasportate, a Spoleto64 si fa giustizia di un pregiudizio.
Ancora ci rimbombano forte in testa, a distanza ormai di 12 anni, le parole di un commentatore “autorevole” della manifestazione, durante il concerto finale dell’edizione 2009, (2° Festival firmato da Giorgio Ferrara), mentre risuonavano le splendide note di “Rhapsody in Blue” di George Gershwin, in una Piazza Duomo ispirata come non mai, rondini “pettegole” permettendo.
“Se volevo ascoltare il jazz , me ne andavo ad Umbria Jazz”, sosteneva con un certo birignao l’autorevole, mettendo a nudo quello che da sempre era stato un vero e proprio pregiudizio culturale sulla musica di un certo genere che a Spoleto non aveva mai trovato dimora, prima di tutto per una fiera avversione del fondatore Gian Carlo Menotti.
Inutile poi argomentare, come facemmo convintamente all’epoca, che la musica del compianto Gershwin non può essere definita “Jazz” per una seria infinita di motivi. Ma questa è una vecchia storia.
La pietra di inciampo
Ebbene quell’episodio è e rimane come la pietra di inciampo da cui ripartire in un nuovo ed entusiasmante dialogo musicale al Festival dei Due Mondi, che vede protagonisti due personaggi, ognuno con le proprie convinzioni ma sicuramente accomunati da una certa “tigna” caratteriale nell’affrontare i luoghi comuni: Monique Veaute Direttore Artistico del Due Mondi e Carlo Pagnotta suo omologo ad Umbria Jazz.
Dopo anni di avvicinamenti, annusamenti poco convinti, e ipotesi accennate e dal vento trasportate, a Spoleto64 si fa giustizia di un pregiudizio.
Ed è così che al Teatro Romano va in scena il primo dei due concerti nati in collaborazione con Umbria Jazz e che aprono una nuova era nella programmazione musicale del Festival. Un passo avanti che immagina prospettive impensabili. Basti pensare alla sostanziale differenza di approccio ambientale e tecnico che i palcoscenici spoletini hanno rispetto alle tradizionali location di Perugia o di Orvieto ( per citare due luoghi d’elezione della manifestazione jazzistica), e che in futuro potrebbero riservare anche più di una sorpresa.
Un Teatro Romano o una Piazza Duomo, i luoghi scelti per questi due primi concerti della collaborazione, sono ambientazioni e al contempo una acustica naturale non facilmente replicabile in giro per l’Umbria. Ma ovviamente non è tutto qui, perchè potremmo citare molti altri spazi a disposizione e che nel tempo sono stati la vera e propria manna per la kermesse festivaliera (come del resto intuì sin da subito il fondatore Gian Carlo Menotti).
Ma tutto questo non basta ovviamente, perchè è necessario scegliere gli artisti giusti. E mai scrittura fu più indovinata del Fred Hersch Trio per iniziare una nuova vita. Il fascino elegante e straniante del Jazz: Una carezza in un pugno, come direbbe Adriano Celentano.
Il fascino del jazz “elegante”
Senza scadere nel manierismo, Fred Hersch è al contempo un elegantissimo e disorientante artista, dalla tecnica indiscutibile, capace di passare da struggenti ballate che di stampo jazzistico hanno anche poco, a rivoluzionarie riscritture compositive di grandi pezzi come St. Thomas di Sonny Rollins, letteralmente smontata e riscritta secondo la regola che il tema principale di un pezzo musicale è solo la traccia primigenia su cui costruire un mondo intero. Superba!
E in una virtuosa scaletta divisa tra pezzi scritti da Hersch, anche durante il suo ritiro volontario in una foresta durante il Lockdown “lontano da New York” come racconta al pubblico, e rielaborazioni di grandi classici di Thelonious Monk (come la dissonante We see), il Trio di Fred Hersch, composto anche dal solidissimo Drew Gress al contrabbasso e dallo spiritato Joey Baron alle percussioni, strappa applausi a non finire ad un Teatro Romano praticamente pieno, secondo la disponibilità massima consentita dalla norme di scurezza anti-covid.
Un successo non facilmente preventivabile se si pensa che nella serata di ieri, 2 luglio, si giocava anche la partita di Quarti di finale della Nazionale italiana per gli Europei di Calcio. Una di quelle combinazioni che farebbero abbandonare il campo anche ai più attrezzati artisti.
Ma il pubblico del Romano, l’altra sera, era davvero eterogeneo e a noi osservatori affezionati, più che abituali, del Festival è apparso anche molto più composito (molti non residenti) del solito. Ma questa è la potenza attrattiva del jazz e dei suoi straordinari artisti, un fascino che contamina oltre ogni categoria o luogo comune. E’ l’arte della improvvisazione e della riscrittura che hanno solide radici nel Blues, perchè è da lì che tutto ha inizio!
Una serata splendida, culminata con tantissimi applausi alcune chiamate alla ribalta e un bis di stampo cameristico più che jazzistico, tanto per disorientare!
Una serata che apre un secondo weekend tutto dedicato alle nuove sonorità e che culminerà con l’attesissimo concerto di Brad Mehldau in Piazza Duomo di domenica 4 luglio.
Fred Hersch, nel libretto di sala
Il pianista e compositore Fred Hersch – proclamato “il pianista più sorprendentemente innovativo nel jazz dell’ultimo decennio” da Vanity Fair, “un’elegante forza di invenzione musicale” da The L.A. Times, e “una leggenda vivente” da The New Yorker – si è guadagnato un posto fra i grandi nomi del jazz mondiale contemporaneo. Con all’attivo quindici nomination ai Grammy, Hersch ha ottenuto i riconoscimenti più prestigiosi in ambito jazzistico, tra cui Doris Duke Artist nel 2016, Jazz Pianist of the Year dalla Jazz Journalists Association nel 2016 e 2018 e il premio alla carriera Prix Honorem de Jazz dall’Acádemie Charles Cros nel 2017.
Abile nel reinventare il repertorio del jazz classico con idee fresche e tecnica straordinaria, Hersch sembra essere del tutto indifferente ai generi, autentico battitore libero ha tracciato la propria strada senza cedere a mode e tendenze di successo, preferendo al virtuosismo il lato emotivo ed emozionale della musica. Una musica in cui si fondono tradizione e innovazione, lirismo ed energia, linguaggio jazz e cultura classica.
Al Festival dei Due Mondi si presenta con la formazione principe del jazz moderno, il trio, che vede coinvolti Drew Gress al contrabbasso e Joey Baron alla batteria, musicisti che Hersch frequenta regolarmente da molti anni. Con il batterista di Richmond suona da sempre, basti pensare che il suo esordio discografico lo vedeva in trio con Charlie Haden e, appunto, con Joey Baron. L’incontro con Drew Gress è documentato dall’album del 1992 Dancing in the Dark, e in quel caso alla batteria c’era Tom Rainey. Due grandi artisti che si sono alternati più volte al fianco di Hersch e che nel frattempo hanno suonato molto insieme in formazioni diverse, consolidando la qualità di una sezione ritmica formidabile, tra le più efficaci in circolazione.
Foto: Tuttoggi.info-Carlo Vantaggioli