Proseguono con una nuova intervista, gli incontri esclusivi di TO con il Prof. Giancarlo Elia Valori. In questo nuovo appuntamento il tema affrontato è quello della crisi economica che sta flagellando i paesi occidentali, con tutto ciò che concerne le valutazioni sul modello di crescita che ha dominato questa parte del mondo dal dopoguerra in poi. La decadenza del sistema economico, sopratutto in Europa, è una crisi da benessere, ove utilità di breve periodo e miopia dei singoli e delle loro rappresentanze, hanno messo in ombra i principi guida della crescita umana, di cui quella economica ne è effetto derivato. Incontriamo il Prof. Elia Valori dopo il suo ultimo viaggio in Israele, dove ha presentato all'Ambasciata d'Italia il suo ultimo lavoro Water goes Global- A Geopolitical analysis.
Da che cosa è stata realmente determinata questa crisi che ha investito i mercati finanziari globali?
Innanzitutto da una generale assenza di norme e, nello specifico, da una mancanza di un’efficiente supervisione. Ciò a cui stiamo assistendo oggi, non è la fine del capitalismo, ma l’effetto di errori di supervisione e regolamentazione nella finanza europea e statunitense. In breve, i protagonisti del mercato globale non hanno operato secondo le linee dell’economia sociale di mercato.
La giusta medicina potrebbe essere quella di un’economia al servizio dei cittadini?
Certamente, perché oggi la nostra principale preoccupazione rimane quella di assicurare dinamismo economico e inclusione per aumentare sia le prospettive di occupazione che del giusto salario, al fine di creare le condizioni necessarie perché l’economia mondiale si riprenda e porti, tra la gente, benessere il più ampiamente partecipato.
Cosa dovrebbe fare allora la politica?
Prima di rispondere alla sua domanda voglio ricordare che, in quest’ultimo periodo, l’Italia ha perso ulteriori posizioni competitive. Non è un caso che, il 22 maggio scorso, il rapporto annuale dell’Istat sulla situazione nazionale ha rivelato che il nostro è un Paese disastrato. Unica nota positiva è l’aver evitato una crisi simile a quella greca.
Ma, se l’Italia, economicamente, non è “morta” è evidente che si trova in “coma” e nulla sembra permetterci di intravedere un’uscita dal tunnel.
La ripresa della crisi economica non sta avvenendo, nonostante spesso i telegiornali, sciorinano, in modo ingannevole, dati che parlano di crescita ma non dicono che sono i più bassi d’Europa e troppo deboli rispetto alle percentuali di decrescita che ha subito e che subisce il nostro Paese.
E’ spaventoso constatare come un italiano su quattro è a rischio povertà o esclusione sociale, mentre la disoccupazione giovanile e le differenze di genere sono ai vertici europei.
Tale aspetto risulta ancora più preoccupante dalla lettura di alcuni estratti dello stesso rapporto Istat, i cui dati, realmente spaventosi, dovrebbero indurre la nostra classe politica ad una profonda riflessione e una concreta azione per il rilancio del Paese.
Senza però voler eludere la sua domanda, mi sembra più opportuno chiedersi se e come il nostro Paese può uscire dal pantano nel quale è finito.
Ora, che ne possa uscire non abbiamo dubbi. Ma non abbiamo neppure dubbi sul fatto che non esistano ricette belle e pronte, capaci di produrre effetti immediati. Perché non esistono soluzioni miracolistiche.
Di questo dobbiamo essere consapevoli e dobbiamo guardare con sospetto e scetticismo a tutti coloro che ci vorrebbero far credere il contrario.La strada è lunga e impegnativa.
Dobbiamo cominciare dall’ingegneria politico-istituzionale. E, inoltre, bisogna prendere atto che il bipolarismo – con il connesso leaderismo – non ha funzionato. Sarebbe comunque sbagliato e ingeneroso darne la colpa ai leaders che si sono succeduti. Diciamo solo che in Italia il bipolarismo come metodo di governo non funziona.
Sappiamo bene che altrove ha funzionato e sappiamo anche bene che, nel nostro Paese, sono tanti coloro che considerano il bipolarismo una vera e propria conquista, sulla quale non bisogna neppure aprire la discussione. Noi comunque siamo convinti del contrario: non solo il bipolarismo ha, fin qui, prodotto guasti ma, ciò che è peggio, promette di produrre altri ancora maggiori. Più che le nostre qualità esso, infatti, esalta i nostri difetti: spinge alla contrapposizione, alla visione di breve periodo, alimenta l’illusione con tutti i problemi si possano risolvere, qui ed ora, con un provvedimento normativo, con una riforma. E così viviamo nell’attesa messianica “delle riforme”, che il più delle volte si rivelano per quello che sono: riforme malfatte, riforme fallite, perché concepite al di fuori di un corrente disegno complessivo.
Lei Professore, quali rimedi avrebbe in mente per assicurare lo sviluppo del nostro Paese?
L’Italia, innanzitutto, ha bisogno di un grande Progetto-Paese e di una forza politica propositiva che abbia al suo interno un gruppo di persone capace di attuarlo. Insisto su questo punto: l’Italia non ha bisogno di un improbabile leader carismatico, ma di una forza politica che abbia in sé un gruppo di persone che, dopo aver raccolto le tante idee che circolano nella nostra società, sappia costruire un Progetto di vasto respiro, sappia ottenere su di esso un vasto consenso popolare e sappia infine realizzarlo.
Occorrono quindi nuove Energie?
Certamente. Oggi, tra l’altro, non possiamo più permetterci di vivere alla giornata. Dobbiamo darci delle mete. Del resto siamo in epoca di globalizzazione e, se non vogliamo soccombere, dobbiamo darci un ruolo nella nuova “divisione planetaria del lavoro”, che è la naturale conseguenza della globalizzazione. Tale processo deve quindi concretizzarsi in operosa attività politico-amministrativa, per poi tendere alla selezione delle Energie umane che, assumendo la rappresentanza del Popolo, abbiano le capacità di interpretare fedelmente le esigenze e di agevolare il progresso ed il benessere della libertà e della giustizia.
Dall’idea progetto, dunque, alla “Energia umana”?
Questo è un passaggio che merita e pretende un’acutezza intellettuale non influenzabile dagli slogans d’occasione che durano lo spazio d’un mattino nella suggestione sterile del “passata la festa, gabbato lo santo!” Anche perché ebbene ricordare che, per livello di reddito medio, noi italiani siamo nel primo 10-12 per cento del mondo. Dietro di noi si agita l’88-90 per cento dell’umanità: un’umanità che vuol crescere, vuole svilupparsi, vuole aumentare il proprio reddito. Quindi nessuna posizione possiamo dare per acquisita. Se, in quella graduatoria, non vogliamo scivolare verso il basso – cosa che in realtà sta già accadendo – dobbiamo darci da fare; e molto. Dal canto nostro, siamo convinti che su quella scala possiamo addirittura salire, perché abbiamo tutti i numeri per farlo.
Principalmente, di cosa si dovrà occupare il Progetto-Paese, a cui Lei ha fatto riferimento?
Il Progetto-Paese dovrà occuparsi di economia, ma lo dovrà fare partendo dagli uomini e dai loro bisogni. Al centro del Progetto deve esserci la persona. Per due fondamentali ragioni: innanzitutto perché sia la politica che l’economia non sono fini a se stesse, ma vanno poste al servizio dell’uomo e dei suoi bisogni, a cominciare dal bisogno di lavorare: lavoro che a noi appare come un diritto-dovere di ogni uomo. Produttività ed efficienza del lavoro sono cose essenziali che non possiamo trascurare, pena la nostra emarginazione e il nostro progressivo impoverimento. Inoltre è necessario mettere mano ai processi organizzativi, perché è illusorio pensare di ottenere risultati duraturi con una “macchina statale” che ha più di 150 anni di vita. Alla quale abbiamo affidato sempre nuovi compiti e non l’abbiamo mai sottoposta ad una vera revisione.
E’ prevedibile che in essa vi siano larghe aree di inefficienza?
Certamente. Perché come insegna l’esperienza delle grandi aziende mondiali, le inefficienze non si eliminano con “tagli” indiscriminati ma solo attraverso programmi di ristrutturazione, costruiti per quanto è possibile con il consenso delle persone che ne sono toccate. A tale proposito, voglio ricordare l’interessante programma di otto punti che, prima di trasferirsi a Francoforte, Mario Draghi ha preparato per rilanciare le sorti dell’economia nazionale: la giustizia che non funziona; la scuola da riformare; i servizi di pubblica utilità; le infrastrutture e le grandi opere; il lavoro che non si trova; le relazioni industriali; occupazione femminile; chi è rimasto senza lavoro. Draghi, in sostanza, approva i grandi numeri del piano di Tremonti, ma avverte che senza un salto di qualità nelle misure ci sarà assai poca crescita.
E allora di cosa ha bisogno la nostra macchina produttiva per ripartire col piede giusto?
Prima di ogni altra cosa occorre una rappresentanza degli imprenditori che esprima le istanze diversificate del mondo produttivo, con trasparenza, innovazione e senso di responsabilità, attraverso un impegno ad alta e motivata valenza associativa. Cioè un Associazione che sappia trasformarsi in una poderosa centrale di offerta e gestione di programmi e servizi agli associati. Sottolineo motivata valenza associativa perché gli imprenditori percepiscono che per fare impresa occorre fare sistema. Serve anche uno Stato che torni alla politica industriale: con nuove strutture e infrastrutture; centri di eccellenza in cui far incontrare ricerca e impresa; con università da trasformare in laboratori di modernizzazione; incentivi agli investimenti in innovazione; la diffusione del venture capital e di fondi di investimento in tecnologia. In tale quadro, non posso non ricordare all’importanza di una tanto attesa riforma del fisco, finalizzata ad omogeneizzare la tassazione delle imprese italiane con i sistemi fiscali dei Paesi più avanzati, attraverso l’alleggerimento della pressione tributaria e la semplificazione del prelievo delle imposte.
Oggi abbiamo un fortissimo bisogno di un fisco che stimoli la crescita, di una burocrazia di livello europeo, di un forte ampliamento del credito; insomma, di un Paese capace di costruire lo sviluppo. E, al tempo stesso, di costruire un sistema imprenditoriale e finanziario trasparente, capace di distribuire in modo più equo il carico fiscale, disincentivando l’evasione. Solo così riscopriremo l’orgoglio del fare impresa.
In questo momento, in un Paese stanco e sfiduciato, cosa dovrebbero fare gli imprenditori?
Le priorità sono tante e, quindi, mi è difficile attribuire una precedenza. Gli imprenditori devono farsi carico di una responsabilità in più. Cioè dando vita ad una “nuova borghesia”, ad un ceto dirigente capace di favorire l’innovazione sociale, di promuovere il merito, di valorizzare i giovani, tra cui i migliori “cervelli”. Sono convinto che il futuro del nostro tessuto produttivo risiederà nell’umanesimo produttivo delle nostre imprese. E che la prospettiva di questo Nuovo Rinascimento passa attraverso la cultura della concertazione. Un metodo – di cui sono da tempo un forte sostenitore – che assicura la pratica della governance come strumento per favorire la cooperazione fra i diversi soggetti e l’integrazione fra le diverse risorse e le strumentalizzazioni utilizzabili per lo sviluppo del territorio.
E’ vero che quella “concertazione”, da Lei attuata quando era alla guida degli industriali di Roma e Lazio, risultò vincente?
Si è vero. Durante il mio mandato alla guida dell’Unione degli industriali di Roma e di Confindustria Lazio ho posto profonda fiducia nel metodo del “riformismo concertato”, allo scopo di innalzare il ruolo dell’imprenditoria della Capitale e della sua regione a “modello nazionale” di confronto aperto e costruttivo, che riconoscesse, legittimasse e valorizzasse i comportamenti delle parti sociali, economiche ed istituzionali, affrontando ipotesi e trasformazioni astratte e di conflitti aggressivi. Seguendo questa logica di fondo, ci siamo impegnati per mettere in moto tutti i processi necessari a valorizzare le componenti territoriali dello sviluppo, attraverso la stesura di accordi e la realizzazione di nuovi organismi, alla base dei quali la flessibilità relazionale, il fare sistema, ha costituito il denominatore comune. Questo metodo ci ha consentito di ottenere risultati importanti, ampiamente confermati da studi e statistiche economico-sociali che hanno riconosciuto al nostro territorio regionale notevoli avanzamenti e dimostrato che era stato portato avanti uno sviluppo equo e sostenibile.
Questo sviluppo fu un fatto casuale o contingente?
Assolutamente no. Ciò avvenne a Roma e nel Lazio – desidero sottolinearlo con forza – nonostante i forti vincoli e i tagli alle risorse operati dal Governo nazionale.
Quel modello di “riformismo concertato”, che ho fortemente voluto e adottato, ha dimostrato di essere vincente, perché ha consentito di costruire un “clima” nel segno della concertazione, che ha permesso di sviluppare le naturali vocazioni della Capitale del nostro Paese e, per questa via, di riscoprire una nuova dimensione nazionale e internazionale.
E’ stato un successo per l’intero “sistema regionale” – lo dico con una punta di orgoglio – frutto di un efficace dialogo sociale e che restituì – nonostante le non esaltanti performance economiche del sistema Italia e dell’Europa – la crescita del prodotto interno lordo, l’incremento dell’occupazione, il consistente aumento delle imprese, il riconoscimento di ben otto distretti industriali, la tenuta delle esportazioni delle piccole e medie imprese, pur in un contesto di euro forte.
Ma affinché tutto ciò si realizzi è fondamentale, oltre alla cultura della concertazione, supportare l’uscita delle nostre aziende dai confini domestici, nel tentativo di trasformare la crescita globale in una leva di sviluppo.
Occorre cioè investire energie e risorse per guidare i nostri imprenditori nel mondo, attraverso una mirata ed efficace azione sinergica tra imprese e sistemi istituzionali, camerali e sindacali.
Nella fotogallery:
Il Prof Giancarlo Elia Valori nella recente visita di luglio in Israele, a colloquio con il Presidente Simon Peres;
( Archivio) Incontro con Yaakov Frankel Governatore Banca di Israele;
(Archivio) incontro con Mr. ZHANG GAOLI Primo Vice Premier del Consiglio di Stato – Membro del Comitato Permanente dell’Ufficio politico del 18° Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese
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