Luca Biribanti
“Pro patria” è l'ultima opera di Ascanio Celestini, il popolare attore teatrale che sta segnando la stagione del teatro civile italiano. Per Umbrialibri, Celestini ha presentato questo pomeriggio, presso la sala dell'orologio del Caos, il monologo, scritto su idea di Martone: “Martone mi ha invitato a casa sua per un gelato e mi ha parlato di un film a cui stava lavorando – ha esordito Celestini per spiegare la Genesi dell'opera – “Noi credevamo” (uscito nel 2010, ndr). Sono rimasto stupito dalla richiesta di scrivere qualcosa suk Risorgimento e sulla Repubblica Romana del 1849, visto che non pensavo fosse qualcosa che avesse a che fare col mio teatro – ha detto Celestini – , ma dopo aver iniziato a studiare mi sono reso conto che il Risorgimento è una fonte da cui si possono attualizzare molte problematiche. È stata un momento in cui i giovani italiani hanno preso per mano l'Italia e la Costituzione Romana è stata sancita su principi di grande modernità, ancora oggi è il modello sul quale è fondata la Costituzione Italiana”. Si parte dunque dal Risorgimento italiano inteso come momento storico, ma Ascanio Celestini va al di là della forma e per mimesi letteraria trasforma in risorgimento anche la Resistenza e gli '70 legati al terrorismo 'rosso' e 'nero'; momenti storici che hanno in comune l'attivismo dei giovani, che spesso “si trovavano pistole in mano – dice Celestini- senza neanche sapere il perchè. Moltissimi sono morti senza aver scelto la causa per cui morire”. Sono quei 'ragazzi di vita' o di 'una vita violenta' di Pasolini, strumenti inconsapevoli di un contesto socio-politico che li ingabbia in schiavitù celate sotto varie forme di 'carcere'. Proprio il carcere è uno degli aspetti di “Pro patria”; il monologo è di un carcerato degli anni '70, che immagina di parlare con l'ombra di Mazzini. Come in una necromanzia, le ombre dei personaggi visitano la cella di 1 metroquadrato in cui si trova il personaggio: Pisacane, Mameli, i fratelli Bandiera sono uomini che servono da ponte per raccontare la vita del carcere, e l'inutilità del carcere inteso nel senso moderno.
“Se non si ha la fiducia di poter recuperare un detenuto e reinserirlo nella società, il carcere è del tutto inutile, soprattutto nelle strutture moderne che ospitano i 'condannati'. Alle volte – dice Celestini – alcuni nascondono sotto la lingua, o nel sedere, delle lamette per utilizzarle qualora ci sia una spedizione punitiva da parte di un gruppo di guardie. Se il pestaggio diventa troppo violento, quelle lame vengono usate per sfregiarsi e far uscire tanto sangue da indurre gli aguzzini a smettere”.
“Il carcere dovrebbe essere un posto sul territorio – continua Celestini – e dentro il territorio, non qualcosa di esterno e isolato. È aberrante l'idea di tenere chiusi 10 uomini in 10 metriquadrati con 2 ore d'aria al giorno. Se si crede nel valore sociale dell'espiazione della colpa, il carcere dovrebbe essere una riabilitazione sociale con e per la gente”. Il teatro di Celestini è un teatro che scuote, pone degli interrogativi, indaga su ciò che è sommerso e oscuro. Ma la luce non si accende per cercare una nuova teodicea e il giudizio non è mai una chiave di lettura valida.
Il monologo nasce dalla presa di coscienza del carcerato che tutti e 3 risorgimenti sono falliti; in Italia c'è una sempre stata una rivoluzione incompiuta, così come rimarrà incompiuto il discorso da rivolgere al giudice che cerca di scrivere con l'aiuto dell'ombra di Mazzini. Quel discorso non verrà mai letto, ma sarà un testamento che la storia consegnerà al pubblico. Sarà l'ennesima rivoluzione combattuta dai figli e tradita dai padri?
© Riproduzione riservata