Carlo Vantaggioli
Nell’edizione in edicola questa settimana di Musica Jazz, storico mensile italiano del settore, c’è un editoriale del direttore Luca Conti che tra le altre cose, disapprova e in parte censura, il comportamento di un musicista americano che in una intervista, critica vistosamente, anche con qualche insulto di troppo, il sassofonista Wayne Shorter, reo di non essere più all’altezza del “mito” che da sempre lo contraddistingue. Citiamo questo fatto specifico, perché avremmo una voglia pazza di fare lo stesso con Keith Jarrett, famoso e celebrato pianista americano, che ieri sera (7 luglio ndr.) si è esibito all’Arena Santa Giuliana per il 40° anniversario di Umbria Jazz. Sperando di non ritrovarci citati nel prossimi editoriale di Luca Conti, assicuriamo però che manterremo il dovuto contegno e non sproloquiando, ci accingiamo a raccontare quello che è accaduto ieri a Perugia, peraltro fatti, ampiamente prevedibili.
Jarrett ed Umbria Jazz hanno un conto aperto dal 2007. La storia è nota a tutti e non serve ripeterla. Basta solo ricordare che per colpa di qualche flash il concerto si interruppe con Jarrett fuori di testa che, insultando il pubblico, se ne va. Aggiungiamo anche, che la partecipazione a questa edizione è servita per regolarlo il famoso conto, almeno così era nelle intenzioni di Carlo Pagnotta.
Il concerto di ieri inizia con il “bando” dall’Arena, proprio come nel medievo, di tutti i cine-foto-operatori delle varie testate giornalistiche accreditate. Già questo un pessimo segnale, anche se è nota questa mania, psicotica, di non voler essere fotografati e ripresi in nessun modo dell'artista statunitense. E lo specifichiamo ancora, in “nessun modo”. Nel back stage si respira una certa tensione, perché si sa già che basterà un nonnulla per far saltare tutto e buttare i 120 euro del biglietto nel cesso. Diciamo quindi tutto il contrario di una bella festa di musica e di passione per un genere musicale.
Alle 21 in punto, dopo qualche richiamo all’ordine lanciato dagli altoparlanti, “Il concerto sta per iniziare, vi preghiamo di prendere subito posto”, sale sul palcoscenico un Carlo Pagnotta gesticolante. Negli ultimi anni, mai il patron in persona era salito ad annunciare un gruppo o un musicista. In effetti non lo farà nemmeno stavolta, perché il motivo della sua presenza sul palco è quello di fare le raccomandazioni del caso a cui aggiunge la seguente richiesta, “ Facciamo vedere che pubblico siamo e quando i musicisti entrano ( non dirà mai il nome di Jarrett ndr.) facciamogli una standing ovation…”. E perché no, anche una scappellata spagnoleggiante preventiva magari, aggiungiamo noi.
Sta di fatto che appena i tre, Keith Jarrett, Gary Peacock e Jack DeJohnette, si affacciano sul palco, parte lo standing ovation dei quasi 3mila spettatori, con qualche braccio alzato munito di telefonino per fare una foto prima dell’inizio del concerto, con il palco ancora non illuminato e le luci di servizio dell’Arena ancora accese. Tanto basta per far fare un rapidissimo giro sui tacchi a Jarrett, che riprende la via dei camerini sibilando ad un Pagnotta, sempre più gesticolante con un microfono in mano, “See you later…” (ci vediamo dopo ndr.).
Sembra la replica del 2007, con l’aggravante che qui il concerto manco è iniziato. Pagnotta riprende di corsa la via del palco e visibilmente nervoso apostrofa il pubblico “Lo sappiamo come sono fatti, mettete via i telefonini, siamo qui per la musica, e vedrete che se i musicisti sono contenti poi il bis lo fanno più lungo del concerto…”.
Una specie di promessa che il pubblico, diciamola com’è, si beve pur di sentire questo musicista che ormai è assurto al rango di “feticcio” idolatrato.
Jarrett & Co. tornano quindi sul palco dopo qualche minuto, in una serata ventosa e con l’imbrunire ormai quasi arrivato al buio. E qui scatta quella che, a tutti gli addetti ai lavori, è sembrata la vendetta di Jarrett nei confronti di Perugia e di Umbria Jazz. “Zero lights…” biascica nel microfono al mixer della regia. All’inizio francamente, abbiamo pensato si riferisse alle luci di servizio esterne, ed invece no. Si riferiva proprio alle luci sul palcoscenico. Buio pesto, fatta eccezione per uno spot, uso “lumino da morto”, inchiodato al centro dell’area strumenti che appena appena rischiarava il contrabbasso di Peacock. 40 minuti di un primo tempo del concerto suonato in questo modo, con le ultime file del Santa Giuliana che non hanno manco capito chi c’era sul palco. Poteva essere chiunque o qualunque cosa, anche un cd.
Pubblico compostissimo, che applaude quasi timoroso, ma con una tensione addosso simile solo a quello che si può provare in uno stato di polizia dove tutti diffidano di tutti e di tutto. Massima allerta al proprio vicino per vedere se spunta fuori un cellulare, e non sia mai, orrore degli orrori, una macchina fotografica. Il gusto per il concerto e la musica buttato alle ortiche, il piacere ridotto ad una vana speranza che non accada nulla e che tutto finisca anche presto.
Intervallo di 25 minuti per i musicisti, non uno di più , non uno di meno, e poi si ricomincia con altri 30 minuti circa di concerto.
Questa volta un po’ di luce c’è sul palco, anche perché ormai sono passate le 22 ed è proprio buio, anche se si è capito che il “feticcio” americano sa suonare a memoria, ed anche senza vedere la tastiera del pianoforte. Luce quel tanto che basta per osservare Jarrett suonare sempre di spalle al pubblico. Mai un sorriso, una smorfia, un segno, che sia comunione con quella platea che paga per andarlo a sentire suonare. Lui è li, ed è già tanto!
Quando a volte Jarrett è coinvolto da ciò che sta suonando, usa alzarsi appena dal sedile, leggermente piegato sulle ginocchia, infilando la testa quasi tra le braccia che volano veloci sulla tastiera, emettendo una vocina in falsetto che accompagna il tema eseguito. Una abitudine che spesso è presente anche nei cd fatti in studio e che noi consideriamo piuttosto disturbante.
Tra i tre musicisti, durante tutto il concerto, non si ode una parola con Peacock e DeJohnette ridotti al rango di notai ed anche con poche occasioni di mettersi in luce. DeJohnette addirittura non eseguirà mai un suo assolo mentre va un po’ meglio a Peacock che si prende qualche applauso.
E non c’è molto altro da dire. Il concerto in se non aggiunge e non toglie nulla alla capacità esecutiva e compositiva di Keith Jarrett, ne alla sua storia personale e di musicista. E’ una macchina perfetta, un Cd vivente. Possiamo solo dire che dal vivo si sente di più la conoscenza e l’esperienza di Jarrett nel campo della musica classica. Certi passaggi, alcuni “lirismi” della mano sinistra, alcuni “diminuendo”, rimandano a questo ambito musicale che il “feticcio” dimostra di conoscere come e quanto il jazz. Ma tutto questo è accademia e non serve a capire la serata di Umbria Jazz. Una serata che rimane scolpita nelle parole di Carlo Pagnotta sul possibile bis dei “musicisti contenti”. Una sorta di epitaffio perché, nonostante le zero lights, a parte il see you later, le spalle al pubblico, e il comportamento encomiabile dei 3mila del Santa Giuliana, il tanto cercato bis non ci sarà mai. Il trio, Jarrett in testa, tornerà per 30 secondi sul palco, non al centro e rigorosamente vicini alla porta di uscita, per prendersi, l’applauso della platea, che spera. E poi via di nuovo. Non torneranno più ed il pubblico esausto non avrà nemmeno la forza di fischiare più di tanto. Tra gli spettatori si sente di tutto, incazzature, stanchezza, tensione, mancanza di divertimento, “soldi buttati via”, ed anche il classico “mi è piaciuto, ma che fatica…”. Ora valuti il lettore se è normale andare un concerto per stancarsi.
Francamente non ci capacitiamo perché ancora oggi Keith Jarrett si ostini a suonare in pubblico. Delle due l’una: o ha un bisogno disperato di soldi ( e non ci crediamo ndr.), o si comporta così solo in Italia perché reputa il pubblico locale infido e indisciplinato, da educare con la massima durezza.
Pagnotta se ne faccia una ragione e spenda meglio i suoi soldi la prossima volta. Consigliamo di investire l’equivalente del cachet del “feticcio” per una borsa di studio per giovani musicisti. Chissà che non si trovi tra i tanti un erede, un pò più “amabile” di Jarrett. Gli consigliamo anche come intitolarla, la borsa:” Keith Jarrett non suona più qui”.
E al direttore Luca Conti di Musica Jazz diciamo che stavolta a Perugia è successo il contrario di quanto ha raccontato lui nel suo ultimo editoriale: il grande mito ha insultato il pubblico, anche se tutto ciò, a queste latitudini, ormai non sembra essere più una novità.
Rirpoduzione riservata
(modificato h. 11,29)