Il pomeriggio del 31 dicembre 2020 l’arcivescovo di Spoleto-Norcia mons. Renato Boccardo ha presieduto nel Duomo di Spoleto la Messa, al termine della quale è stato cantato il Te Deum di ringraziamento per l’anno trascorso.
Un anno che si chiude con l’incertezza e le paure causate dal Coronavirus e dunque con un bisogno ancora più forte di riaffidare tutto al cielo.
Nell’omelia il Presule ha sottolineato come l’anno che volge al termine è stato ricco di eventi, positivi e negativi, personali e sociali, custoditi da ciascuno nella memoria del cuore.
«Tuttavia – ha detto mons. Boccardo – non possiamo non fare riferimento al Coronavirus che da diversi mesi e in mille modi ci tocca da vicino. “Questo è un anno da dimenticare”, sentiamo ripetere da amici e conoscenti, pronti a voltare pagina per lasciarsi alle spalle un passato da dimenticare e votati alla speranza di un futuro che sarà certamente migliore, perché “peggio di così non potrà andare”, si dice. E invece no. Questo 2020 non è un anno da dimenticare, ma da ricordare. Perché ci ha offerto una lezione di vita, una lezione più che mai “in presenza” anche quando avveniva a distanza, perché è entrato nella nostra carne, ci ha costretto a guardare ciò che non avremmo voluto vedere».
L’Arcivescovo ha ribadito come il Covid-19 sia una grande lezione riguardo ai limiti.
«Ci è richiesta la difficile arte di dirci dei no, di porci dei limiti e di attenerci ad essi, di non fare, di non andare, di non incontrare; arte che ci ricorda come il vero esercizio della libertà personale consista nel darsi una regola di comportamento e nel rimanervi fedele. Ci siamo trovati di fronte, improvvisamente, alla preziosità del nostro tempo, che ora possiamo cogliere e sentire, non solo veder fuggire».
La pandemia è una memoria mortis.
«Che ci ricorda – ha detto il Presidente della Conferenza episcopale umbra -con brutalità che non solo la fragilità e la vulnerabilità sono parti costitutive della vita, ma anche la morte. Anzi, la vita non è senza la morte e solo ciò che vive ha la capacità di morire. Il Covid-19 ci ha obbligato a porci nuovamente di fronte all’orizzonte della nostra fine naturale per recuperare quella sapienza che da sempre nasce dal pensare la vita tenendo presente la morte».
La pandemia ci ha mostrato infine che abbiamo bisogno gli uni degli altri.
«E ha contestato – ha sottolineato l’arcivescovo Boccardo – le tendenze di radicalismo individualista che ci abitano. Noi siamo relazione: è un insegnamento tanto semplice ed elementare quanto spesso disatteso e ignorato nel nostro vivere quotidiano. Proprio mentre ci chiede di osservare il distanziamento e di mettere la mascherina, la pandemia ci sprona ad assumere la responsabilità verso gli altri: la vita mia e degli altri, soprattutto dei più fragili, dipende anche dai miei comportamenti. Ad una società che chiude le frontiere a migranti e stranieri, che mette in atto politiche di respingimento, il virus che senza problemi passa frontiere e confini ha mostrato la stupidità e la cattiveria di politiche immunitarie che perseguono la sicurezza in modo ossessivo e si scoprono poi radicalmente insicure».
Nella Messa per la solennità di Maria Madre di Dio, in cui la Chiesa celebra anche la Giornata Mondiale della Pace, tenutasi sempre nel Duomo di Spoleto il 1° gennaio 2021, l’arcivescovo Renato Boccardo ai fedeli presenti ha sottolineato il grande bisogno «di coraggio per vivere e non sopravvivere. C’è bisogno di coraggio – ha detto – per amare e lasciarsi amare, per sposarsi e fidarsi di un’altra persona, per fare un figlio e poi essergli davvero padre o madre… Tanto più per affrontare l’attuale situazione, che ci confronta ogni giorno con la paura più grande, quella della morte. Ma forse qui abbiamo bisogno ancora di un altro coraggio, quello che nasce non dalla paura ma dall’accoglienza della vita come dono del tutto gratuito e immediato, così ricco e intenso da rendere il vivente capace di fare dono a sua volta della propria vita vivendola pienamente, al massimo, dandole il senso più vero e più bello che l’uomo le possa mai dare, cioè “generando vita” a sua volta, facendosi carico dell’altro, spendendosi. Chi infatti si dona e lo fa in modo molto concreto (in famiglia, nella società civile ed ecclesiale, nel servizio disinteressato e nell’assistenza gratuita ai più deboli), infatti, “deve” morire ogni giorno a se stesso, perché l’amore ha una struttura pasquale.
Il coraggio di cui parliamo – ha proseguito il Presule – non è allora banale ottimismo che vuol credere a tutti i costi che anche stavolta ce la faremo, o temerarietà di chi nega tutto o non percepisce la potenza del rischio, né è solo impegno pur benemerito a trovare rimedi, tanto meno è solo pregare e impetrare da Dio la grazia di non essere toccati dal virus o di venirne fuori presto… Il coraggio credente non viene dalla paura, ma da quella fiducia che consente di guardare al futuro non pretendendo che “tutto andrà bene”, ma sapendo con assoluta certezza che Dio sarà al mio fianco, che non mi lascerà solo, nemmeno se sarò isolato o intubato in una stanza d’ospedale, e mi darà in ogni caso la forza di vivere i miei giorni riempiendoli di luce. Perché Dio – ha concluso l’Arcivescovo – è fedele, amico affidabile, mani sicure, garanzia di un amore più forte della morte. E mi posso fidare di lui!».