Categorie: Cultura & Spettacolo Spoleto

Teatro al carcere di Spoleto: detenuti esordiscono con lo spettacolo del laboratorio teatrale

Le parole di un detenuto, Nicola R., morto di tumore, così la regista Patrizia Spagnoli ha deciso di presentare il progetto teatrale nel carcere di Spoleto:
“Quando a fare teatro è un detenuto senza speranza come me, il teatro diventa un niente come i tanti niente di questo luogo. Un niente che ha la sola utilità di far passare in modo diverso un po’ del mio inutile tempo nella illusione che quel niente possa continuare a chiamarsi vita. Desolante illusione, illudermi che in questo luogo senza vita e senza speranza, fare teatro può servirmi per lanciare un messaggio che qualcuno raccoglierà. Il teatro in carcere è solo occasione di relazionarmi con voi, che venite dall’esterno? No. E’ anche l’occasione per continuare a usare vocaboli che vorrei non uscissero definitivamente dal mio vocabolario. Potrebbe essere anche un mezzo per far aumentare la mia autostima perduta nella solitudine di questi luoghi ma, anche se lo fosse, a chi interessa se ricostruisco quel senso d’identità smarrita nell’essere stato quello che non sarei voluto essere”.
Che ricordo ha di Nicola come attore?
Patrizia Spagnoli:
“Nicola R. non è più tra noi, ma a me piacerebbe molto sapere se almeno lì, dove sta ora, è riuscito finalmente a trovare il suo senso d‘identità smarrita. Brecht diceva che tutte le arti contribuiscono all’arte più grande di tutte o, come diciamo noi, a quella più difficile di tutte: quella di vivere.L’arte del teatro all’interno di un luogo di annullamento della persona permette, forse, al corpo e alla mente di riattivarsi come unità. Una trasformazione e una presa di coscienza. Il teatro rappresenta un luogo d’incontro tra dimensioni diverse, uno spazio fisico e mentale di esperienze comuni, uno strumento per informare sulla condizione di detenuto il mondo esterno e un confronto con esso”.
Che si prova a fare teatro in carcere? In fondo è come se già si fosse in scena…
“L'attività teatrale ha come scopo quello di favorire la libera espressione dell'essere umano e il suo sviluppo psico-fisico in un contesto carcerario dove l'alienazione e la spersonalizzazione producono apatia intellettuale e affettiva. I detenuti hanno la possibilità di scrivere dei testi che racchiudono le loro storie, racconti di vite difficili vissute, pensieri profondi, speranze inarrendevoli, desideri mostrati e opinioni personali, messi a disposizione del gruppo e della drammaturgia dello spettacolo finale. Ogni partecipante al laboratorio ha un ruolo importante per la compagnia di teatro e tutte le idee sono accolte e considerate come prodotto creativo di ognuno. L'ascolto e la condivisione dei propri vissuti all’interno di un gruppo producono diversi livelli di consapevolezza in grado di toccare la sfera emotiva interiore, mentre la messa in scena, con qualche piccolo accorgimento scenico derivante dall'arte dell'attore, facilita un'educazione alla sensorialità e alla percezione della propria voce e del proprio corpo, privilegiando la relazione con gli altri, con se stesso e con la propria creatività espressiva. Il gruppo di teatro diventa dunque una microsocietà, le ore di teatro un appuntamento con questa realtà, dove l'incontro con l'altro, diverso da sé, permette un'interazione allargata rispetto alle relazioni che il detenuto stabilisce quotidianamente con gli altri compagni, con le guardie e gli educatori. Il laboratorio teatrale è sperimentale perché non segue un protocollo di lavoro prestabilito ma tutto si crea nel gruppo e grazie alla volontà del gruppo rispolverando vecchi ideali e dando vita a nuovi valori e significati connessi alla propria cultura. I soggetti del gruppo si percepiscono come parti di un sistema, dove i singoli sono necessari al raggiungimento di uno scopo comune rappresentato dalla produzione della performance finale e dal messaggio in esso contenuto”.

Così è nato Capisco, non Capisco ma intuisco, lo spettacolo teatrale messo in scena dalla Compagnia Araba Fenice della Casa di Reclusione di Spoleto diretta dalla regista e teatroterapeuta Patrizia Spagnoli. L’opera è il risultato del laboratorio del 2011 al quale hanno preso parte oltre venti ospiti dell’Istituto penitenziario Umbro oltre alle due psicologhe volontarie Elisa Montelatici e Chiara Napolini. Tutti i componenti del gruppo hanno contribuito, ciascuno nelle proprie possibilità e competenze, alla stesura del testo, alla costruzione della scenografia, alla realizzazione dei libretti di sala e delle locandine, alla scelta delle musiche e dei personaggi. Una vera “drammaturgia penitenziaria” come la definisce Antonio Turco, educatore e responsabile del più grande gruppo di teatro penitenziario: la “Compagnia Stabile Assai” della Casa di Reclusione Rebibbia di Roma alla quale la compagnia “Araba Fenice” di Spoleto si sente un po’ gemellata. E’ un vero esperimento di “teatrologia” come piace chiamarlo alla regista di questa commedia all’italiana. Capisco, non capisco ma intuisco, è la storia di tanti di noi. E’ la storia dell’Italia e degli italiani. Narra le vicende di due famiglie in contrasto tra di loro, narra della storia d’amore impossibile tra due ragazzi, della storia di qualcuno che vince e qualcuno che perde, della storia della giustizia e dell’ingiustizia. Insomma, è la storia delle storie. Il testo è stato costruito giorno dopo giorno, improvvisando, scrivendo e narrando le storie personali degli attori, ma anche leggendo, studiando e riadattando anche i grandi classici da cui sono stati presi molti spunti: da Eduardo De Filippo a Gaber, passando per Pirandello e Goldoni. Purtroppo nonostante gli sforzi, questa storia non ha un finale. Non è stato trovato. E così, ogni spettatore ha dovuto costruire il suo. Gli attori si sono limitati a dare solo un consiglio preso in prestito dal grande Roberto Benigni: innamoratevi. Dilapidate la gioia, sperperate l’allegria, solo così diventerà tutto vivo.