Che la fama di Lonnie Holley precedesse il suo arrivo al Festival dei Due Mondi di Spoleto, si tratta di una fatto assodato. Ma che assistere ad un suo concerto, o meglio performance, per quanto difficile e fuori da schemi predefiniti sia una sorta di epifania anche questo è un fatto incontrovertibile.
A vederlo dal vivo, per Lonnie, tutto gioca a suo sfavore come la sua stessa vita racconta. Settimo di ben 27 figli, adottato da una ballerina di Burlesque e scambiato, all’età di 4 anni, per una bottiglia di Whiskey; a quale umanità disperata può capitare una cosa così devastante? Alto, dal passo incerto, visibilmente disordinato e con delle mani inanellate e macchiate che sembrano da sole delle sculture come quelle che invece le stesse creano, insieme a pitture murali e a recupero di improbabili materiali scartati. L’inchiostro sotto le sue unghie è ormai talmente indurito che a volerlo togliere non basterebbe nemmeno un acido potente. I capelli rasta acconciati come una siepe dopo il passaggio di un tornado.
Da un uomo di tal fatta ci si aspetta poco, se lo si osserva distrattamente. Poi capita che si sieda davanti ad una improbabile pianola recuperata da un robivecchi e con gesti teatrali di una lentezza disarmante, si metta a cantare con una voce insolitamente potente e modulata.
Ed è proprio in quel momento che la prospettiva di chi osserva cambia. Non siamo mai abbastanza edotti del fatto che in noi tutti risiede la divinità creatrice, anche se antichi testi e molti racconti lo ricordano costantemente. Ma Lonnie Holley sa trasmettere questa misura della vita in poche note e gesti rarefatti.
Seguendo uno schema musicale legato alla tradizione del Blues delle origini, con 4-5 note di base ripetute e modulate con l’uso di sintetizzatori che ne allungano a piacere la durata ed il tono, Lonnie costruisce delle storie che non sono scritte mai definitivamente. In ogni concerto un testo può cambiare secondo l’ispirazione dell’artista che di fatto costruisce la scultura di se stesso ogni sera.
Holley parla uno slang americano difficilissimo da seguire, masticatissimo e senza possibilità di ripetere la stessa parola in una frase. Se non si è nati nel suo stesso giorno e in Alabama, ma soprattutto se non siete mai stati scambiati da piccoli per una bottiglia di Whiskey, allora non sarete mai in grado di capire tutto fino in fondo.
Non resta che affidarsi ai suoni e alla potenza generatrice di questi. Un po come accadeva nei concerti del mitico Sun Ra quando suonava Space is the Place (quello che aveva parlato con i saturniani. Questi strani americani nati nei ghetti…).
Per Lonnie lo schema è quasi simile tanto che non siamo mai sicuri se si tratti di Jazz improvvisato, di Blues cosmico o di Gospel da predicatore sui generis. I testi? C’è tutto dentro, dal motivazionismo classico alla Do the Right Think, all’ambiente, alla famiglia, ai rapporti universali e al Granello di polvere nell’Universo Madre (Dust Speck in Mother Universe)
All’Auditorium della Stella l’epifania si compie quando Holley, spostando di continuo una sedia, intona un mantra che fa più o meno così, “Sit right there…” (siediti proprio li), raccontando anche in modo concitato di sua nonna. Un pezzo talmente strano, quasi cosmico, dove lo stesso Lonnie riesce ad essere una persona agile, elegante e tonica, al contrario del suo apparire adulto, quasi anziano e dal passo claudicante.
Un vero rito iniziatico per chi siede all’Auditorium, tutto giocato su 4 note ripetute e amplificate in lunghezza e toni a dismisura, con l’aiuto del fido duo Nelson Patton (batteria, sintetizzatori e trombone), e Holley con la sua voce folk, che più folk non si può.
Dopo un primo applauso diffidente, il pubblico di Spoleto (quasi 100 persone) si rianima e capisce, applaudendo convintamente l’artista la cui vita è costata come una bottiglia di Whiskey.
Un concerto presentato da Mahler & LeWitt Studios