Spoleto

Spoleto64, “La Signorina Giulia” applauditissima a San Simone | Tra immoralità e cannibalismo

August Strindberg è di casa a Spoleto. Ed oltretutto proprio nella città del Festival ne è stata data una rilettura che traspose per la prima volta il famoso drammaturgo svedese in un ambito definibile come di “gradevole simpatia”.

Il cannibalismo di Ronconi

Era il 2014 e Luca Ronconi, fedele compagno di strada e mentore di Giorgio Ferrara decise di mettere in scena per Spoleto57 Danza Macabra con protagonisti d’eccezione lo stesso Giorgio Ferrara ed Adriana Asti.

In un orgia di morsi vampireschi e infarti secchi, il geniale Ronconi riuscì a trasformare una lugubre storia familiare ambientata in una isola del nord, in mezzo al nulla, in una sorta di commedia brillante dove una delle caratteristiche principali era il gioioso cannibalismo a colpi di morsi (mentali e sentimentali) tra umani.

…e quello di Lidi

Ed è così che nelle note di regia de La Signorina Giulia andato in scena per la prova generale ieri 25 giugno a San Simone, quando il regista Leonardo Lidi, autore anche della riduzione del testo strindberghiano, accenna al cannibalismo intellettuale e agli aspetti disorientanti del gioco al massacro tra gli appartenenti alle nuove generazioni (di cui Lidi fa sicuramente parte per età anagrafica), si è spalancato di nuovo un mondo di simpatia per il drammaturgo svedese.

Non siamo del tutto sicuri che Lidi abbia avuto tra le sue reali intenzioni quella di rendere più gradevole al pubblico un testo di August Strindberg, ma ciò che abbiamo visto a teatro soprattutto nella ambientazione scenografica rimandava a contesti di costrizione fisica e mentale tali da far sembrare tutto il resto un pallido esercizio accademico.

Più volte abbiamo raccontato in altri scritti sul teatro che la lezione beniana (Carmelo Bene) dell’abbandono del testo a monte, ci sembrava la via migliore per non dare per scontato nulla davanti ad un palcoscenico dove il male peggiore è il dejavù, il re-citato o anche il già detto o morto orale.

E riscrivere, anzi inventare ex novo lo spazio scenico de La Signorina Giulia come se ci si trovasse in uno dei passaggi segreti che conducono alla Camera funeraria della Piramide di Cheope, ci è sembrata una scelta straordinaria, saggia ed affascinante.

Un luogo foriero di putrefazione ma anche di rigenerazione.

Scrive infatti Lidi, “Continuo la mia ricerca sui confini autoimposti dalla mia generazione, dopo Spettri, Zoo di Vetro, Casa di Bernarda Alba, La Città Morta, Fedra consapevole che il concetto di lockdown ora interroga lo spettatore quotidianamente sui limiti fisici e mentali della nostra esistenza.

Dopo la pandemica reclusione casalinga mondiale, manca solo un manuale pratico sullo stile del ben più noto Libro dei Morti, per avere sempre a portata di mano la chiave interpretativa di una condizione straniante perpetua di ritorni in vita. E il gioco è fatto.

Lidi è senza dubbio un talentuoso giovane-uomo di teatro e nelle sue note di regia scrive ancora, “La signorina Giulia è considerato il capostipite del movimento europeo detto naturalismo e August Strindberg, spigoloso e violento, in Italia spesso subisce la semplificazione della verità. Se è vero che l’opera di Strindberg fa parte della nuova formula di Zola rendere vero, rendere grande e rendere semplice non bisogna scordare le grandi incoerenze, l’incapacità del normale, e la enorme statura teatrale dell’immorale drammaturgo svedese

Ed immorale è senza dubbio l’aggettivo giusto, il più calzante in un testo in cui si suggerisce la morte di Julie per rasoiata! O dove la seduzione non è altro che disperazione maleodorante come una cancrena. Ecco perchè la messa in scena a Spoleto64 della piece di Strindberg, ha il sapore e il fascino sempiterno della speranza. Perchè in questo caso, l’immoralità è comunque un percorso e forse anche una via di uscita che riporta l’umano alla sua vera dimensione originaria.

Anche nella piramide di Cheope, del resto, c’erano dei condotti d’aria a rinfrescare gli spazi interni e a consentire la sopravvivenza in quello che non era altro che un regno della morte.

Di pregio il lavoro dei protagonisti, Giuliana Vigogna, Christian La Rosa, Ilaria Falini. Anche se ci sarebbe piaciuto di più che l’amplificazione fosse messa punto con maggiore precisione. a tratti, soprattutto nei passaggi in cui le voci, per ragioni di testo, si sovrapponevano alzando di molto il tono di emissione, ne veniva fuori un impasto metallico che non dava nemmeno il senso della parola detta. Ma con poco il problema si sistema.

Un ottimo inizio della sezione teatro. Ne sarà soddisfatta Monique Veaute, e forse da lontano anche un po’ Giorgio Ferrara.

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