Accusati di introduzione in Italia di oltre 300 capi d’abbigliamento contraffatti e di ricettazione, sono stati condannati rispettivamente a un anno e 5 mesi (oltre a 2.500 euro di multa) e undici mesi di reclusione (più 1.700 euro di ammenda). Questo l’epilogo della vicenda giudiziaria che vedeva alla sbarra madre e figlio, gestori di un negozio di abbigliamento nella periferia di Spoleto.
Ispettori certi della contraffazione – Un negozio che, stando al quadro accusatorio, rifilava ai clienti capi contraffatti di grandi marchi spacciandoli per originali. Stando alle testimonianze di numerosi ispettori anticontraffazione nominati dalle stesse case di moda – alcune delle quali costituite parti civili nel processo – i capi di abbigliamento e gli accessori potevano ingannare la normale clientela ma presentavano segni di contraffazione inequivocabili per un occhio esperto.
Le tesi degli avvocati – Il pubblico ministero Roberta Maio e gli avvocati di parte civile sono stati concordi nell’affermare che fosse ampiamente provata la responsabilità penale degli imputati per entrambi i reati a loro ascritti. Tesi che invece è stata confutata dal difensore dei due, l’avvocato Angiolo Casoli del foro di Perugia, secondo il quale non sarebbe stato provato il reato di introduzione in Italia di capi contraffatti. Per l’avvocato Casoli, inoltre, il figlio non avrebbe mai partecipato attivamente all’acquisto della marce per cui sarebbe stato da assolvere indipendentemente dalle responsabilità attribuite alla madre.
Merce confiscata – Il giudice Augusto Fornaci ha solo in parte avallato questa tesi difensiva riconoscendo all’uomo alcune attenuanti e sospendendo la pena. Nessuna sospensione invece per la madre, che risultava peraltro recidiva. La merce contraffatta verrà confiscata e distrutta.
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