Cultura & Spettacolo

Sgarbi presenta la “Sibilla Persica” di Rubens in anteprima mondiale ad Amelia

Vittorio Sgarbi ha mantenuto la promessa dello scorso 11 settembre, quando (nell’ambito del conferimento dell’incarico di commissario delle belle arti e ai musei della città da parte del sindaco di Amelia, Laura Pernazza) aveva annunciato che ad Amelia sarebbe arrivato un dipinto di Rubens in anteprima mondiale.

Ieri sera, nel museo civico archeologico e pinacoteca “Edilberto Rosa”, il dipinto si è materializzato agli occhi di una vasta platea che è rimasta incantata di fronte alla bellezza straordinaria dell’opera del maestro di Anversa “Allegoria della Fede. La sibilla Persica”.

Grazie al Comune di Amelia, all’Ameria Festival, diretto da Riccardo Romagnoli, al patrocinio del Mibact, alla Soprintendenza dell’Umbria, al patrocinio della Regione e alla produzione della “Società Sistema Museo” e al sostegno della “comunità Incontro”, la tela sarà in esposizione nel museo amerino da oggi fino all’8 gennaio 2017, creando un ideale percorso artistico lungo i luoghi caravaggeschi tra Roma e Fermo, con Amelia centro dell’itinerario che porta il visitatore a conoscere la grandezza di Caravaggio e le influenze esercitate su Rubens.

Il dipinto, proveniente da una collezione privata, è stato periziata circa 30 anni fa da Giovanni Testori, definito da Sgarbi come “il più grande critico d’arte di area padano-lombarda”.

Sgarbi

“Nella sua identificazione di Sibilla  essa porta il mistero dell’incarnazione della Vergine. È un’allegoria della fede nell’allargata e suggestiva interpretazione di Testori, ma sostanzialmente è la Sibilla Persica. Il pittore ce la mette davanti come una persona vera, un residuo del caravaggismo: è una donna con un po’ di pappagorgia, non sgradevole o anziana, vestita lussuosamente che rende questo dipinto vicino ai più belli di Raffaello, Veronese e Tiziano. Quindi un’opera ‘italiana’ di una grande artista di Anversa che ha superato la suggestione e l’ipnosi caravaggesca”.

La perizia di Testori

“Rappresenta un ritratto di dama assunta a simbolizzare la fede cristiana, incentrato sul culto mariano, come testimonia il libro aperto con la scritta sulla quale la nobildonna punta l’indice e il monocolo con la Vergine, colta nel suo ruolo di dominatrice del male

[…] Il dipinto impone il riconoscimento della Sibilla, non in una generica allegoria della fede, ma nella Sibilla Persica, associata alla profezia della nascita di Cristo dalla Vergine, sottomettendo la bestia demoniaca per la salvezza del genere umano […] La Persica viene per lo più rappresentata col capo coperto con veste damascata e ricami in oro così come appare nel presente dipinto, così come la scelta di rappresentare una sibilla non in vesti antiche o greco-romane o orientali è tipicamente fiamminga […] Quasi nella posa di un’annunciata sorpresa durante la lettura, appare, diversamente da come ci si potrebbe attendere, per via dell’iscrizione circolare entro cui è racchiusa ancora giovane, con il volto non coperto dal velo o copricapo […] Un ritratto in veste sibillina di una donna di condizioni sociali elevate, dotata di virtù morali e intellettuali, di un’illuminazione mentale, assistita dal volere divino e alla qualità per eccellenza della profetessa, di età non avanzata, in opposizione alla vecchia lectio secondo la quale la Persica andava ritenuta la più vecchia delle sibille”.

La storia del dipinto e l’idea di un percorso caravaggesco con Amelia epicentro ideale di un itinerario artistico tra Roma e Fermo. La questione dell’identità cristiana

“Un giorno un mio collaboratore – racconta Sgarbi – mi porta la foto di questo dipinto che è stato interpretato come l’allegoria della fede. Qual è il tema fondamentale in questo momento ad Amelia, al di là dei pittori amerini e di Pier Matteo di Amelia? È la questione delle radici cristiane che, di fronte alla nostra astinenza nel riconoscere la nostra identità, era stata colta nel modo più impeccabile negli anni 30′ da Benedetto Croce. “Non possiamo non dirci cristiani” –

che non vuol dire che non dobbiamo credere in Dio, ma vuol dire che siamo cristiani.

Soltanto una Costituzione ipocrita come quella europea poteva non avere un preambolo sulle radici cristiane, chiesto da due papi e negato da Gianfranco Fini, Giuliano Amato e Giscard D’Estaing, 3 pirla che messi insieme hanno detto di no al Papa. Le radici cristiane ci dicono di essere quello che siamo e mi sembrava che non ci fosse momento più propizio per promuovere l’idea che non dobbiamo aver paura di quello che siamo, essere orgogliosi di quello che siamo. Non togliere il crocifisso dalle scuole, ma lasciarlo, perché simbolo di una civiltà. E noi lo togliamo perché un ragazzo musulmano soffre a vedere un uomo in croce, quando ancora i suoi collegionari crocifiggono le persone: vaffa…, quel crocifisso implica un’identità culturale e civile, che parte dalla Grecia e poi si trasforma in quella cristiana.

Che arrivasse dunque un’allegoria della fede ad Amelia, chiunque fosse l’autore, mi è sembrato che fosse cosa assolutamente coerente con un discorso più generale che va oltre Amelia e che da Amelia lancia un segnale davanti al mondo di orgoglio cristiano”.

Rubens e Caravaggio finalmente ‘si incontrano ‘

Rubens è uno dei tanti giovani pittori che accorrono in Italia da tutta Europa per vedere la rivoluzione realistica che a Roma era in atto con Caravaggio, “precursore della fotografia” – come ha ricordato Sharbi – con le sue opere spogliate degli orientamenti idealizzanti di Michelangelo e Raffaello e calato nella vita reale e ‘violentemente pasoliniana’. Rubens non riuscì mai a incontrare Caravaggio, ma per caso ebbe modo di entrare in possesso di una sua opera.

“A Carvaggio venne commissionata una “Morte della Vergine”– spiega Sgarbi – prende un po’ di clochard, mette un telo rosso nel suo studio, e mette questi mendicanti intorno a una prostituta morta nel Tevere con la pancia piena d’acqua. Quando l’opera arriva ai preti di Santa Maria Della Scala, la respingono e la buttano quasi via in una vendita all’asta per strada. Passa Rubens che la compra per i marchesi di Mantova, i Gonzaga e la tela finirà poi il suo percorso al Louvre.

Ma lì c’è la scintilla di un amore compiuto davanti all’opera, perché l’opera è come l’uomo. Gli artisti non muoiono perché la loro anima si impiglia nella tela e vive per loro.

Mentre lavora in Italia, la famiglia Filippini di Fermo chiede a Rubens una “Natività” e lui ha un transfert, crede di essere Caravaggio e dipinge una natività alla Caravaggio da mandare a Fermo. Nello stesso momento, Caravaggio, che si trovava a Messina, dipinge anche lui una natività. Non si parlano, non si vedono, ma stranamente dipingono lo stesso soggetto, la stessa idea della nascita di un bambino povero, con gli stessi pastori, con le stesse luci, con lo stesso angolo e le stesse dimensioni.
Allora ho avuto l’idea di mandare questa tela di Rubens a Messina, perché fosse esposta accanto a quella di Caravaggio in occasione di un centenario di un terremoto e per la prima volta ho fatto incontrare Rubens e Caravaggio. Si parlavano, si guardavano, erano due persone, non due dipinti. La cosa straordinaria è che per quanto Rubens avesse cercato di rimanere fedele al realismo di Caravaggio, aveva usato troppi ‘effetti speciali’; in Rubens c’è ancora l’idea di un mondo che migliora la realtà. L’opera di Caravaggio rimane più importante perché umile, povera, disperata. Alla fine, dei due, continua ad essere più grande Caravaggio.
Partendo dai Rubens di Roma, poi parti per andare idealmente verso nord, verso Fermo, passando per Amelia. Questa non è solo un’opera, ma una relazione tra Caravaggio, i caravaggeschi di cui il più grande è certamente Rubens.

“Quando Rubens conclude Sgarbi –  torna ad Anversa, questo dipinto è del 1611-1612, non torna più un pittore dei Paesi Bassi, ma torna un pittore ‘italiano’, ancora carico dell’esperienza italiana, ma rimane ancora legato a una visione idealistica che riproduce nell’”Allegoria della Fede”, cioè un’astrazione. Dipinge un’abbondanza di cuore che la fede testimonia. Oggi interpretiamo questa allegoria come la “Sibilla Persica”.