Quando ho scritto che il Coronavirus sarebbe stato per noi italiani più duro della seconda guerra mondiale mi hanno contraddetto. Erano i primi di marzo, la strage era appena cominciata. Certo non mi riferivo alle vittime degli eserciti, nè a quelle più numerose del cosiddetto fuoco amico americano, centinaia di bombardamenti su città indifese; spiegavo piuttosto cosa volesse dire vedere, conoscere e subire un nemico concreto piuttosto che affrontare un virus maligno e invisibile. Non voglio avere ragione anche se sarebbe fin troppo facile, per chi come me quella guerra l’ha vissuta e sofferta, smentire chi ne ha solo letto o sentito parlare; in questo Paese la storia, per essere appurata, ha bisogno di secoli, mistificata com’è dai narratori faziosi, spesso anche di (usurpata) chiara fama. E’ la fine della guerra vera che mi viene in soccorso, se appena raffrontata ai primi e spesso illusori segnali di pace che oggi potremmo chiamare Movida e allora si chiamò Liberazione. Allora l’Italia patì, e non dappertutto, anche gli effetti di una cosiddetta guerra civile, ma quando la radio e le campane comunicarono la fine del conflitto il popolo scese nelle strade a far festa, e nelle case sbocciarono cerimonie d’amore; la vita riprese ritmi addirittura inediti, la libertà e le necessità moltiplicarono le forze dei lavoratori e le speranze dei più vecchi come dei più giovani.
Salvo controllare rigurgiti di cattiva politica, nessuno proibì feste, sorrisi, baci, abbracci, raggruppamenti di amici e fratelli sulle strade e nelle piazze, in montagna o al mare, per assaporare quella libertà che a certuni mancava da poco, ad altri da una vita. Si tornò a cantare, aiutati da una produzione esaltante, a volte rispolverando “voci di prima” come Alberto Rabagliati, Nilo Ossani, Oscar Carboni e Natalino Otto, o lanciandone di nuove come Gino Latilla, Achille Togliani, Giacomo Rondinella, Luciano Tajoli, Carla Boni e Nilla Pizzi, mentre sotto sotto i V Disc ereditati dalle truppe americane ci facevano fare amicizia con Glenn Miller (sparito in guerra) e Benny Goodman trionfante alla Carnegie Hall. La musica della pace si chiamava jazz e stavano al gioco anche i filosovietici privi di una godibile colonna sonora che non fosse “Bandiera rossa”.
Adesso ti dicono che la tua ultima prigionia – il confino detto lockdown -è finita, ma per favore opera con giudizio, rispettando le regole del distanziamento sociale innanzitutto, poi le altre che insieme hanno un solo grave difetto: dipendono dall’intelligenza dei cittadini che non voglio offendere dicendoli sottodotati ma sicuramente privi di semplice prudenza. A seconda dei luoghi, naturalmente “all’italiana”: così mentre a Tocco di Casauria, nell’Abruzzo appena sfiorato dal contagio, il santo protettore Eustachio viene portato non in processione dai fedelissimi – come si dovrebbe – ma tutto solo con un camioncino al fronte della preghiera, a Brescia ritorna il coprifuoco che vale l’annuncio disperato dell’8 settembre 1943, “la guerra continua”. Nel senso che per pochi ma dotatissimi stupidi malati di finto eroismo molti cittadini assennati dovranno tornare alla clausura e alla paura.
Il generale Giuseppe Castellano che nel ’43 aveva preparato l’armistizio – poi firmato dall’inutile generale Badoglio – un giorno mi disse che appena formulato quell’annuncio di presunta felicità cominciò una circoscritta e breve guerra civile perchè – precisò – “questi sono gli italiani”. Questa guerra – che sta producendo festeggiamenti beoti prima del tempo e dunque contagi in nome di un “liberi tutti” sancito non dalla Costituzione ma da sindaci e governatori – non finirà tanto presto e non penso tanto a nuove vittime ma a una ribadita paura nemica della ripresa totale. Nel ’46, a guerra finita, non avemmo più paura. Solo fame.
SE IL CORONAVIRUS E’ COME UNA GUERRA
Dom, 24/05/2020 - 18:02