Ancora una volta ha spiazzato tutti, Catiuscia Marini. La notte ha portato consiglio. O sconsiglio, secondo quanti sembravano convinti che la legislatura fosse salva, almeno fino a dopo il 26 maggio, con la speranza (nemmeno tanto celata) di arriva fino al termine naturale, nel 2020. Le persone che le sono rimaste accanto nelle ultime ore di sconforto, ritenevano si fosse convinta della necessità di prendersi una breve pausa di riflessione e di valutare il da farsi. Anche per riprendersi dallo stress che sabato sera le aveva provocato un malore. Una riflessione che avrebbe potuto portare a qualsiasi decisione. Anche dal punto di visto dell’indagine giudiziaria, infatti, sembra che Marini avesse avuto il via libera dal proprio legale: libera, sul piano delle possibili conseguenze nell’inchiesta condotta dalla Procura perugina, di scegliere se continuare a guidare la Regione Umbria.
Ed invece, come era accaduto quel 16 aprile, le parole del segretario nazionale del Pd, Nicola Zingaretti, hanno pesato come macigni. Prima la rabbia per quel “li cacciamo” ascoltato alla tv e ripetuto nelle piazze umbre. Poi l’orgoglio, nella nota dettata in serata al proprio portavoce. In cui parlava di completamento della procedura delle dimissioni, una volta ristabilitasi, senza però svelare compiutamente con quale esito. Tanto che, ancora lunedì mattina, gli irriducibili indicavano i tempi delle possibili elezioni anticipate, sempre un mese più in là, magari fino ad arrivare alla prossima primavera.
La “pec” con cui anticipa la scelta di confermare le proprie dimissioni (scelta che dovrà comunque formalizzare in Aula) arriva senza un ulteriore confronto con la maggioranza in Consiglio regionale e dopo gli strilli del segretario Zingaretti. E questo nonostante abbia più volte rivendicato “l’autonomia” della scelta personale e di presidente della Regione. Se indebite pressioni c’erano state da parte della segreteria del partito nazionale, questa volta sono state non solo pubbliche, ma dette davanti agli umbri.
Dopo l’auto-salvataggio di sabato Catiuscia Marini è stata impallinata sulla stampa locale e nazionale. “La presidente salva se stessa” il senso della ricostruzione di una seduta in cui la scelta di Leonelli di non votare ha messo la maggioranza, numeri alla mano, con le spalle al muro.
La maggioranza, a quel punto, ha chiesto un parere agli uffici sulla legittimità del voto della presidente su un atto che la riguardava, come appunto le dimissioni da lei stessa presentate. Perché incredibilmente, nonostante si sapesse da un mese che i numeri erano risicati (Barberini aveva detto che non sarebbe stato in Aula), nessuno aveva avuto ancora il tempo di verificare quali fossero i corretti passaggi tecnici. Parere negativo, quindi nulla di scritto da parte degli uffici. Tant’è che il vice presidente del Consiglio regionale, Valerio Mancini, valuterà poi di presentare un ricorso al Tar contro quel voto (rivendicando quel gesto forse come la spallata decisiva).
La maggioranza decide comunque di andare avanti. Marini vota, per respingere le sue dimissioni, spiegando l’utilità tecnica (“altrimenti non potrei restare in Aula per il resto della seduta”) e soprattutto il senso politico di quella scelta: politicamente non ho nulla da rimproverarmi (così come sul piano dell’inchiesta giudiziaria si dice convinta che ne uscirà indenne). E comunque non mi faccio ricattare.
Con questi presupposti, l’epilogo pareva scontato, ma non certo. Sicuramente non lo era nei tempi e nelle modalità. E comunque, spostato, anche per tempi tecnici, al di là del voto del 26 maggio, con buona pace dei candidati che chiedevano di chiuderla in fretta.
Poi, la giornata di domenica ha dato un’accelerazione alla crisi politica. Ed evidentemente anche a quella personale ed umana di Catiuscia Marini.
Ripercorriamo le ore che hanno portato, di fatto, alla fine anticipata della X legislatura della Regione Umbria.
Prima a Foligno e poi a Perugia (lo stesso farà in serata a Terni) il segretario nazionale del Pd, Nicola Zingaretti, domenica inizia il proprio intervento parlando della Sanitopoli che ha colpito il Pd e del caso legato alle dimissioni della Marini. Ribadendo quanto detto nella trasmissione andata in onda poco prima su Rai3, intervistato da Lucia Annunziata: “Io credo che si sia commesso un gravissimo errore politico“. Accusando la governatrice umbra di mancanza di coerenza nel votare in Aula per consentire di respingere le dimissioni da lei stessa presentate e decise. “Io non ho chiesto a nessuno di dimettersi” spiega Zingaretti a proposito del colloquio avuto quel 16 aprile fatidico con la governatrice umbra, indagata nell’inchiesta sulla Sanitopoli perugina e con una raffica di intercettazioni compromettenti finite da due giorni su tutti gli organi di informazione locali e nazionali.
Ribadendo soprattutto l’affondo: “Nel Pd che ho in mente se qualcuno si vende le domande dei concorsi lo cacciamo dal Partito democratico“. Nonostante quanto c’è scritto nel codice etico del partito, che Marini ha rispolverato negli ultimi giorni. Parole, quelle di Zingaretti, seguite da un lungo applauso dei presenti in una Sala dei Notari gremita. In prima fila, i candidati alle comunali, ma anche esponenti del partito che, in queste settimane, hanno chiesto a viva voce di voltare pagina e tornare alle elezioni.
In tv, incalzato da Lucia Annunziata su cosa sarebbe accaduto in caso di dimissioni, Zingaretti si era limitato a rispondere: “E’ importante dare giudizi chiari“. La base, quella almeno che si riunisce intorno al segretario nazionale, invoca il pugno di ferro.
E mentre Zingaretti termina la sua arringa a Perugia, spostando i cannoni dalla Marini a Matteo Salvini, la governatrice, nella sua casa di Todi, sta dettando al proprio portavoce una nota di replica a quanto detto dal segretario in televisione. Affermazioni, quelle di Zingaretti, che Marini giudica “gravi“. Perché non rispondenti “al dibattito ed agli atti dell’Assemblea legislativa“. E soprattutto perché “dirette e negare la pressante ed esplicita richiesta ricevuta durante la giornata del 16 aprile volta a determinare, in modo anomalo ed extraistituzionale, le mie dimissioni da presidente della Regione Umbria, carica istituzionale – si ribadisce – eletta direttamente dai cittadini“. Pressioni a cui la governatrice aveva fatto riferimento anche nel suo intervento in Aula, usando addirittura la parola “ricattare“. Anche se poi, nel suo stesso discorso, Marini aveva detto di aver preso la decisione di rassegnare le dimissioni ai sensi dell’art. 64 comma III dello Statuto (cioè per ragioni politiche) in “autonomia“. “Una decisione, le dimissioni – era stato un altro passo del suo discorso – che ho voluto condurre e guidare“.
Con un percorso di cui Marini, all’inizio della nota con cui sconfessa Zingaretti, torna a parlare, annunciando: “Completerò la procedura prevista dallo Statuto regionale inerente le mie dimissioni, ciò non appena le mie condizioni di salute me lo permetteranno“. Perché la presidente Marini, sabato sera, una volta tornata a casa dopo l’estenuante giornata a Palazzo Cesaroni, ha accusato un lieve malore ed è stata ricoverata precauzionalmente all’ospedale di Pantalla, per poi essere dimessa il giorno seguente, pur con una prescrizione che impone riposo per cinque giorni.
“Oggi è ricoverata in una clinica e mi dispiace ovviamente” aveva detto Zingaretti in tv a proposito di un colloquio che non ci sarebbe stato, con la governatrice umbra, ma che “ci sarà“. Così come altri hanno augurato la pronta guarigione a Catiuscia Marini. Ma il clima all’interno del Pd è talmente degenerato che molti, a microfoni spenti, arrivano a parlare di un malore “tattico” per evitare l’immediato confronto con il segretario nazionale in arrivo in Umbria e soprattutto per prendere tempo e poter ragionare sul proprio futuro senza pressioni, traguardando le elezioni del 26 maggio.
Perché la scelta, formalmente, domenica sera è ancora da prendere. Anche se Catiuscia Marini, dopo quanto sentito dal suo segretario, forse la decisione l’ha già presa, anche rispetto ai tempi. Leggendo la nota la volontà poi comunicata lunedì mattina traspare, ma non è certa. In base all’art. 64 comma III dello Statuto, infatti, la presidente che si vede respingere le dimissioni rassegnate per motivi politici deve comunque comparire in Aula entro un tempo massimo di 15 giorni per comunicare definitivamente se intende ritirarle oppure no. Restare a Palazzo Donini o andare tutti a casa: in ogni caso si completa “la procedura prevista dallo Statuto regionale“. Così come non svela la scelta futura l’attacco, col riferimento a quel “pur a fronte della fiducia e della presenza di una maggioranza politica all’interno dell’assemblea legislativa“, che sembrerebbe portare verso le dimissioni, seguito da un “anche di attestazioni diffuse per una chiusura regolata e anticipata della legislatura“.
Poi, in un’intervista a Il Messaggero, Marini dice che forse si dimetterà dopo le elezioni europee, ma che prima vuole sentire “la maggioranza“. Quella in Consiglio regionale, visto che è lì, e non nelle stanze di partito, ha ribadito più volte in questi giorni, che si decide il destino di un presidente di Regione eletto dai cittadini.
Ma anche tra gli irriducibili che hanno salvato la governatrice Marini (così come del resto lei ha salvato loro, per il momento) le previsioni su cosa accadrà, per tutta la giornata di domenica e fino alla nota di Palazzo Cesaroni alle 12.30 di lunedì, non sono univoche. Il “Day After”, domenica, si era aperto con il post con cui Marco Vinicio Guasticchi invitava il popolo del Pd a superare “divisioni e future rese dei conti” per concentrarsi sulla campagna elettorale. Difficile, però, in questo clima, predicare la calma. E così, rispondendo ai vari commenti, Guasticchi scrive: “Tutto concordato col Pd nazionale, si vota a novembre“. Per poi prendersela con “portaborse e nullafacenti mimetizzati da giovani rigeneratori”. Concetto ribadito in serata.
Il capogruppo dem Gianfranco Chiacchieroni, nella nota con cui si è rallegra per l’esito del voto di sabato, parlando di “maggioranza di centrosinistra unita” che ha respinto le dimissioni della presidente Marini (voto unanime, perché Leonelli non ha votato), finisce addirittura per abbandonare la strada delle elezioni anticipate: “Andare ad uno scioglimento anticipato dell’assemblea regionale, per chiedere il giudizio degli elettori solo qualche mese prima della sua scadenza naturale, prevista per la primavera prossima – scrive parlando al plurale, quindi a nome del gruppo dem – lo riteniamo un atto non giustificato e accettabile solo da chi intende, come la Lega e Cinque stelle, speculare come degli avvoltoi su una vicenda giudiziaria analoga a quelle che li coinvolgono in molte altre regioni d’Italia. In questo quadro auspichiamo che la stessa presidente della Giunta tenga conto del sostegno raccolto in modo da giungere, dopo le consultazioni europee e amministrative, ad una sua positiva determinazione“. Insomma, per lui le dimissioni non s’hanno da presentare, né ora, né mai più.
Una posizione che a quel punto sembra confermare i dubbi di Leonelli, che sabato si era detto disposto a votare il respingimento delle dimissioni come atto politico per non sconfessare l’operato della maggioranza in questi anni e per concedere l’onore delle armi alla Marini, purché subito dopo lei stessa le avesse confermate. Non lo ha mai convinto, invece, la linea della legislatura di scopo, con la road map dei cinque punti da raggiungere prima del voto anticipato: per Leonelli il rischio è quello di una melina ad oltranza per arrivare alla prossima primavera, come apertamente confessato da Chiacchieroni.
Impallinato in Consiglio dai colleghi della maggioranza (di cui, forse, a quel punto non fa più parte?), Leonelli viene acclamato alla Sala dei Notari. “Voglio salutare il consigliere Giacomo Leonelli che è qui” dice il commissario Walter Verini parlando con a fianco il segretario nazionale Nicola Zingaretti. Come dire: è lui l’unico consigliere regionale del gruppo dem che segue la linea del partito. Indicata a livello nazionale, regionale (scontato, visto il commissariamento seguito all’arresto di Bocci) e comunale (sul tavolo c’è anche il segretario perugino Polinori, che poco prima aveva firmato una nota in cui si chiedeva di voltare pagina). Marini, come molti irriducibili, contestano invece a Leonelli di volersi ora tirare fuori, lui che fino a un anno fa è stato segretario umbro del Pd.
Ora il Pd umbro un segretario non ce l’ha. Ha un commissario, Walter Verini. Che prosegue: “Mi auguro che il Consiglio regionale chiuda nel migliore dei modi una brutta pagina per aprirne un’altra”. Un intervento, quello del commissario Pd, che si conclude con l’invito a superare il “male drammatico di questo partito: il correntismo, con i capibastone, che fanno male alla politica“.
E di superamento delle correnti parla poi anche Zingaretti. Annuncia dopo le europee una nuova fase costituente del Pd: “E’ evidente che qualcosa è avvenuto. In nome del pluralismo c’è stato un radicamento insopportabile di correnti che pensano solo al potere, in cui la mano destra non sa cosa fa la sinistra“, che ha portato ad avere una classe dirigente “dove, invece del merito, ha vinto la fedeltà al capo di turno“.
Ma nei dibattiti social, c’è chi chiede al commissario Verini e al segretario Zingaretti di assumere allora provvedimenti contro gli irriducibili, se l’unico consigliere regionale che segue la linea del partito è quello che non ha votato per respingere le dimissioni della presidente.
Affidata ad un commento social la propria soddisfazione per l’incontro della Sala dei Notari l’ex senatrice Valeria Cardinali. Orlandiana con il dente avvelenato per l’esclusione un anno fa dalle liste per le politiche. “Abbiamo scritto la risposta migliore – il suo post – alla bruttissima pagina politica di ieri (il voto in Consiglio di sabato, ndr) che difficilmente dimenticheremo. Ma il Pd c’è ed è questo, non quella cosa lì“. Perché per tanti esponenti dem che sono fuori da Palazzo Cesaroni, gli irriducibili sono “quella cosa lì“. La Cosa, come un alieno.
Non fa più parte da tempo del gruppo dem Attilio Solinas, che negli ultimi giorni ha lasciato anche Articolo 1 Mdp, proprio in disaccordo sulla linea del partito di andare alle elezioni anticipate. Lui, che da alleato critico si è ritrovato nell’ultimo mese ad essere uno dei più vicini alla presidente Marini, le aveva consigliato di non presentare le dimissioni, cedendo alle pressioni del suo partito. Solinas non ha dubbi: a spingere per le dimissioni della Marini è il “correntone umbro che fa capo a Zingaretti“, rappresentato a livello regionale da Verini, per “mettere le mani sull’Umbria, gestendo la fase di transizione post-Marini, comprese le future candidature per le regionali, sgombrando il campo dai residui delle vecchie correnti“. Un disegno per il quale il duo Zingaretti-Verini non si farebbe scrupolo di consegnare l’Umbria alla Lega. Perché evidentemente, per Solinas, senza Sanitopoli il centrosinistra avrebbe potuto mantenere la Regione. E può ancora farlo – pur con il colpevole ritardo di questo mese di incertezze perso per i guai interni al Pd – se la fase viene gestita senza una ritirata stile Caporetto. Nelle elezioni che, a differenza di altri colleghi del Consiglio regionale, vede a dicembre. Quando, permanendo la guerra scatena dal “correntone Pd“, sarà invece completato “il capolavoro“.
Più che una guerra in Umbria, pare che nel Pd sia in atto una battaglia sull’Umbria. Assaggio della madre di tutta le battaglie, quella per riprendersi il Pd nazionale o decidere una nuova scissione. Al Nazareno sospettano che nella sfida che ha provato a lanciare alla segreteria nazionale del partito Catiuscia Marini non sia sola. Consigliata sì da qualche esponente locale che sa di non avere chanches di tornare a Palazzo Cesaroni, ma soprattutto da esponenti nazionali della sua corrente storica, quella dei Giovani turchi, che nel tourbillon conosciuto dal Pd ha finito con l’avvicinarsi a Matteo Renzi. Il quale è stato tra i pochi a difendere la governatrice umbra.
Insomma, attraverso la vicenda Marini si vorrebbe indebolire la segreteria Zingaretti, confidando anche nei risultati delle urne del 26 maggio. Dopo Giachetti (che aveva contestato a Zingaretti la diversità di parametro utilizzata nel valutare i casi Umbria e Calabria), è l’amico storico di Catiuscia Marini, Matteo Orfini, ad intervenire sul caso, parlando di “una vicenda gestita male dal vertice nazionale del Pd, fin dall’inizio”. Ad Ignazio Marino saranno fischiate le orecchie. “Se un gruppo dirigente vuole le dimissioni subito – spiega Orfini in un’intervista a La Stampa – lo dice. Non si può dire ‘decidono gli umbri’, ‘deciderà Catiuscia’, e poi fare pressioni…”.
E’ Orfini ad indicare l’epilogo di questa vicenda: “Per come si sono messe le cose a questo punto è difficile pensare di andare avanti, mi pare abbastanza inevitabile che lei confermi le dimissioni”.
Dimissioni che Catiuscia Marini, in attesa di confermarle in Aula come prevede la procedura statutaria, ha preannunciato con una “pec” indirizzata a Palazzo Cesaroni.
Ah, dimenticavo. Come ha detto il candidato perugino del centrosinistra, Giuliano Giubilei, alla Sala dei Notari: “Vorrei ricordarvi che domenica ci sono le elezioni“.