(Adnkronos) - “Giulio Regeni non era un agente dei servizi segreti italiani. Nella struttura non lo conosceva nessuno e su mandato ho sondato anche i servizi inglesi, l’MI6: chiesi se era una loro risorsa e mi dissero che non lo era, io penso sia vero”. A dirlo l’ex direttore dell’Aise, Alberto Manenti, sentito come testimone nel processo davanti alla Prima Corte di Assise di Roma che vede imputati quattro 007 egiziani accusati del sequestro e dell’omicidio di Giulio Regeni, il ricercatore friulano rapito, torturato e ucciso in Egitto nel 2016.
Manenti in aula ha ricostruito le fasi precedenti al ritrovamento del corpo. “Ci siamo trovati di fronte a un muro di gomma da parte degli egiziani”, ha detto, aggiungendo che nei giorni successivi alla scomparsa, in base anche ad una serie di elementi, la “situazione portava ad un fermo non ufficiale, una pratica spesso usata in Egitto sia per i cittadini stranieri ma soprattutto per i connazionali”.
Dall’audizione è emerso inoltre che il capo dei servizi segreti egiziani, il Gis, già il 3 febbraio del 2016 comunicò al suo omologo in Italia sulle ferite riscontrate alla “base del cranio” di Regeni. Ferite che sarebbero state accertate ufficialmente solo 10 giorni dopo, in seguito all’autopsia svolta in Italia. “Mi trovavo in albergo al Cairo. Il nostro capocentro al Cairo entrò nella stanza e mi disse che era stato trovato il corpo di Giulio. Chiamai immediatamente il mio omologo del Gis il quale prima mi disse che avrebbe accertato del ritrovamento e mi chiamò dopo circa mezz’ora. Quando gli chiesi le cause della morte mi disse ‘ci sono traumi, segni alla base del cranio'. Tra me e me pensai ad un colpo ricevuto da un corpo contundente. Lui parlava di segni esterni”.
(Adnkronos) – “Giulio Regeni non era un agente dei servizi segreti italiani. Nella struttura non lo conosceva nessuno e su mandato ho sondato anche i servizi inglesi, l’MI6: chiesi se era una loro risorsa e mi dissero che non lo era, io penso sia vero”. A dirlo l’ex direttore dell’Aise, Alberto Manenti, sentito come testimone nel processo davanti alla Prima Corte di Assise di Roma che vede imputati quattro 007 egiziani accusati del sequestro e dell’omicidio di Giulio Regeni, il ricercatore friulano rapito, torturato e ucciso in Egitto nel 2016.
Manenti in aula ha ricostruito le fasi precedenti al ritrovamento del corpo. “Ci siamo trovati di fronte a un muro di gomma da parte degli egiziani”, ha detto, aggiungendo che nei giorni successivi alla scomparsa, in base anche ad una serie di elementi, la “situazione portava ad un fermo non ufficiale, una pratica spesso usata in Egitto sia per i cittadini stranieri ma soprattutto per i connazionali”.
Dall’audizione è emerso inoltre che il capo dei servizi segreti egiziani, il Gis, già il 3 febbraio del 2016 comunicò al suo omologo in Italia sulle ferite riscontrate alla “base del cranio” di Regeni. Ferite che sarebbero state accertate ufficialmente solo 10 giorni dopo, in seguito all’autopsia svolta in Italia. “Mi trovavo in albergo al Cairo. Il nostro capocentro al Cairo entrò nella stanza e mi disse che era stato trovato il corpo di Giulio. Chiamai immediatamente il mio omologo del Gis il quale prima mi disse che avrebbe accertato del ritrovamento e mi chiamò dopo circa mezz’ora. Quando gli chiesi le cause della morte mi disse ‘ci sono traumi, segni alla base del cranio’. Tra me e me pensai ad un colpo ricevuto da un corpo contundente. Lui parlava di segni esterni”.