Verrà presentato il prossimo 21 ottobre a Recanati il nuovo libro del Prof. Giancarlo Elia Valori, Presidente de La Centrale Finanziaria Generale, dal titolo “Geopolitica delle risorse alimentari”. L'appuntamento è presso l'Aula Magna del Palazzo Municipale di Recanati, con il patrocinio del Comune e dell'Università di Macerata. Con l'occasione si terrà anche un convegno sul tema con la partecipazione del Prof. Paolo Savona, professore emerito di Politica Economica, l'Ambasciatore Giulio Terzi di Sant'Agata, già Ministro degli Esteri nel governo Monti e l'Ing, Gennaro Pieralisi, presidente dell'omonimo Gruppo.
Il Prof. Elia Valori, già protagonista su Tuttoggi.info in alcune interviste su temi di carattere internazionale (clicca qui e qui ), ha voluto ancora una volta rispondere in anteprima ad alcune nostre domande sull'argomento che verrà trattato nel corso del convegno di Recanati.
Prof. Valori, in questa sua nuova pubblicazione si comprendono futuri scenari internazionali in forte movimento su risorse come cibo e acqua che non sempre vengono considerate strategiche da parte dell'opinione pubblica:
Un libro sulla “geopolitica del cibo” può suonare paradossale. Se è vero che la nutrizione è basilare per la specie, è peraltro vero che solo il cibo, tra i tanti tratti culturali che caratterizzano le varie famiglie umane, è tipico, regionale, di forte potere simbolico in quanto consumato in piccoli gruppi o in famiglia, quando non da soli. Un tratto identitario come e spesso più delle abitudini riproduttive della specie homo sapiens sapiens.
Allora, studiare il passaggio dalle “nazioni” e dalle “regioni” del food&beverage al consumo globale può essere un utile sistema per capire come la mondializzazione della abitudine più privata, oltre il sesso, che la natura ci ha fornito sta trasformando proprio la nostra natura, non solo i nostri modi di gestione dell'economia. La globalizzazione del cibo ci condurrà al vero uomo-massa mondiale, che non avrà più tratti caratteristici e nazionali o locali, ma sarà intercambiabile con chiunque nel mercato-mondo. L'”uomo-massa”, il massemensch degli spartachisti tedeschi verrà realizzato dall'oligopolio delle grandi aziende del food, che socializzeranno al massimo le abitudini per privatizzare, parafrasando Pietro Nenni, i loro sempre maggiori profitti. Il socialismo della produzione monopolistica che rende tutti, come nella “Fattoria degli animali” di Orwell, uguali con qualcuno “più eguale degli altri”.
E' per questi motivi che ha sentito la necessità di una trattazione organica sulla geopolitica del cibo? In qualche modo ci avverte di cambiare orizzonte?
Siamo abituati, oggi, a pensare ad una globalizzazione che riguarda i capitali, le grandi aziende manifatturiere, le imprese “mature”, le immense reti dei mass-media. Oppure alla universalizzazione delle scelte geopolitiche, a quelle dei “valori” o delle mitologie politiche à la mode. Ma, ormai, la mondializzazione dell'economia ce la abbiamo nel piatto, nei tessuti, nei minimi oggetti della vita quotidiana. E' un universo che condiziona, anche psicologicamente, la nostra vita biopsichica. In Italia, per esempio, la francese Lactalis possiede Parmalat, oltre a Galbani, Locatelli e Invernizzi.
E meno male che De Gaulle riteneva ingovernabile un paese dove si producono ben trecento tipi di formaggio…gli arabi del Fondo Sovrano del Qatar, un Paese che ha speso il 4% del suo PIL per sostenere i “Fratelli Musulmani” del Presidente deposto Morsi in Egitto, hanno acquistato i diritti di Missoni nel settore vitivinicolo, di cui il Corano espressamente proibisce qualsivoglia uso; mentre una nota azienda pavese del riso, ben nota agli appassionati di spot televisivi, è ormai per un quarto in mano agli spagnoli. Una birra con i baffi è ormai del tutto sudafricana. La Gancia è controllata da un oligarca russo, banchiere e produttore di una comune vodka, mentre molte note aziende italiane di salumi sono, anch'esse, in mano spagnola. Che notoriamente è una nazione che vive di bocadillos di ottimo prosciutto della Meseta. Insomma, anche in un paese ricchissimo di tradizioni gastronomiche regionali e locali come il nostro, dove il buon mangiare è di prammatica, la globalizzazione del cibo è ormai un fait accompli. Un successo per l'Italian way del cibo, forse, ma anche una debolezza strutturale delle nostre aziende, troppo piccole per globalizzarsi o troppo grandi per non poter tentare la via del grande mercato globale. Gli errori di un ingenuo gigantismo finanziario e la psicologia da parvenu hanno fatto il resto.
Può spiegare ai lettori, a grandi linee, come funziona il mercato del cibo, a livello globale?
Il cibo ha molti costi incomprimibili oltre un certo limite di gestione, produzione, mantenimento, stoccaggio, pubblicità e distribuzione. Pur essendo un bene assolutamente primario, è fortemente differenziato, per ovvi motivi climatici e storici. Nessuno fuori dalle Highlands scozzesi mangerebbe lo Haggis, insaccato di interiora di pecora con cipolla, grasso di rognone, spezie, farina e brodo. A venderlo a Palermo, dove si usa il “pane con la milza”, scoppierebbe una rivolta popolare pari a quella dei Fasci Siciliani. Per non parlare del fatto che il cibo è sempre, malgrado tutte le chimiche più portentose, un prodotto a scadenza ravvicinata. La chimica del cibo globale costa il 7-8% di ogni confezione venduta. Quindi è inevitabile che le aziende che se ne occupano siano fortemente verticalizzate e diffuse nel globo, almeno per quel che riguarda il low- and medium food. Comporre i costi di un bene naturalmente deperibile è, sul piano manageriale, un meccanismo complesso più di quanto non si creda. I grandi gruppi di “food&beverage” fanno comunque i loro più alti profitti nei paesi “in via di sviluppo”, anche se potrebbe sembrare ragionevole il contrario, mentre operano con una strategia recessiva nei mercati del Primo Mondo, dove la concorrenza è più forte, le forniture locali più presenti e i costi di pubblicizzazione/differenziazione artificiale del prodotto sono ben più rilevanti. Ricorrere alla chimica, qui, non avrebbe senso. Il mercato più “ricco”, in prospettiva, sarà quello della Cina, dove ben 300 milioni di persone (la popolazione della UE, più o meno) sta uscendo dalla fase di estrema povertà per arrivare a quello del sostentamento autonomo orientato a quei consumi che Galbraith chiamava “affluenti”. Il mercato russo dovrebbe raddoppiare di volume nei prossimi cinque anni, e queste operazioni le possono fare solo le Big Ten del cibo industriale, non certo i piccoli ma splendidi caseifici della Food Valley parmigiana. L'India sarà il terzo mercato mondiale del cibo. Il Brasile seguirà a ruota, con consumi in crescita del 12-15% ogni anno. Andremo verso una semplificazione del cibo, un global taste e una omogeneizzazione delle abitudini, che prevedono un consumo compulsivo, spesso chimicamente esaltato, a piccole dosi e costante nell'arco della giornata, semicasuale e legato a quello che Freud chiamava l'istinto del Piacere. Il cibo come sostituto universale, un “ersatz” per tutte le piccole e grandi tragedie quotidiane. Dolcificanti, esaltatori di sapore, coloranti, saranno la “copertura” di una base produttiva sempre più eguale a sé stessa. La “copiatura” dei global brands di successo diverrà la norma, per un mercato di nuovi venuti che non è abituato alla varietà del cibo. Si pensi alla Mecca-Cola dei fondamentalisti islamici. La Ferrero con la sua Nutella, più copiata della “Gioconda” di Leonardo, ne sa qualcosa, anche per quel che riguarda l'immenso mercato cinese, dove ha gestito una causa, vincendola, contro un succedaneo, un erstatz locale. Le vere grandi imprese tra le Big Ten del cibo operano con almeno 400 diversi marchi, come la Unilever, olandese, con tassi di profitto oltre il 10%. O con almeno 550 nomi diversi per prodotti simili, come accade con una multinazionale del cibo USA che opera anch'essa globalmente. Un unicum nel sistema delle aziende manifatturiere, per tassi di crescita e redditività unitaria dei prodotti. . Ciò porterà, come spiego nel mio libro, ad una costante crescita degli investimenti finanziari nel “food&beverage”. Quindi il nuovo mercato mondiale del cibo è un oligopolio quasi naturale, esso si concentra sul prodotto finito e ben confezionato, “more than meets the eye” sarà, lo è già oggi, la regola, con i food designers che ricreano pavlovianamente il panino con la polpetta rendendolo sublime per l'immaginario sociale. Il nuovo mercato-mondo trascura le produzioni intermedie, che non rendono mai molto bene Poi costringe le aziende di distribuzione, comunque grandi, ad una forte restrizione dei loro utili marginali, ma inoltre si perderà, perché la grande produzione delle Big Ten ci costringerà a farlo, il gusto del cibo che oggi si dice a “chilometri zero”, la cura delle mamme, la fantasia spesso geniale del “cibo povero”. La creazione ex nihilo del piatto giusto per i poveri, come è accaduto per il “Lardo di Colonnata”, asse saluberrimo della nutrizione per i cavatori anarchici e mazziniani del marmo di Carrara. Saremo, con danni per la salute ben prevedibili, pieni di cibi semplicissimi, spesso con “basi” quasi identiche, che però variano dal salato al dolce, dal piccante al morbido. Standardizzare il gusto per omogeneizzare stili di vita, reazioni psichiche, comportamenti immediati, modelli di spesa e ritmi del rapporto tra lavoro e tempo libero. E' tutto già scritto.
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