Gli oltre sei milioni in conti correnti, beni mobili e immobili della società ‘Piccolo carro’ resteranno sotto sequestro. Come aveva chiesto il sostituto procuratore della Repubblica di Perugia, Michele Adragna, secondo cui quei soldi sarebbero il frutto di una truffa perpetrata dai titolari della cooperativa ai danni dello Stato Italiano.
Il ‘no’ al dissequestro chiesto dalle difese al Riesame (il collegio era composto dai giudici Giuseppe Narducci, Alberto Avenoso e Marco Verola) è arrivato ieri sera, dopo che in mattinata avvocati e procura si erano dati battaglia in aula. Non sfugge infatti l’importanza di un sequestro di simile portata. Per la tesi accusatoria, Cristina Aristei e il marito Pietro Salerno, titolari della cooperativa sociale che gestisce strutture residenziali per minori ad Assisi, Bettona e Perugia, avrebbero incassato oltre sei milioni dalle casse pubbliche come rimborsi per servizi che loro non avrebbero neanche potuto erogare perché senza autorizzazione, ovvero l’attività terapeutico sanitaria. Per ogni ospite infatti, è stato ricostruito, la cooperativa avrebbe ricevuto come rimborso 400 euro al giorno ed è per questo che sono accusati di truffa aggravata e frode nelle pubbliche forniture.
Secondo il pm titolare dell’inchiesta, sarebbe “inequivocabile l’assenza, in capo alle strutture gestite dalla società cooperativa sociale Piccolo Carro a r.l., dei presupposti autorizzativi per l’esercizio di attività sanitaria e sociosanitaria, previsti dalla normativa statale e regionale in materia”.
Inoltre accertamenti dei Nas hanno dato conto del fatto che nelle strutture residenziali della cooperativa Piccolo Carro “da anni venivano erogate, con continuità, verso ospiti minorenni, prestazioni di tipo sanitario e/o sociosanitario, per mezzo di una organizzazione propria, interna alla cooperativa stessa, composta da infermieri, medici, psichiatri, psicologi, psicoterapeuti, che non solo provvedeva alla somministrazione di importanti terapie farmacologiche nei confronti di pazienti con patologie di tipo neuro/psichiatrico, in alcuni casi di grado severo, ma assumeva anche autonome decisioni in ordine alla prosecuzione, alla modifica o alla interruzione delle terapie stesse, senza alcun coordinamento o collaborazione con i servizi di neuropsichiatria della USL del territorio e, di conseguenza, stante la concomitante e radicale carenza di autorizzazione sanitaria, senza che fosse mai stata improntata e attuata alcuna forma di supervisione, vigilanza o controllo da parte di organi del servizio sanitario pubblico”.
Le motivazioni della decisione del tribunale del Riesame verranno depositate nei prossimi 45 giorni. A quel punto le difese potranno fare ricorso in Cassazione per cercar di far valere le proprie ragioni.