“Ho ucciso tutte le persone che mi amavano, vorrei sparire, vorrei morire presto, non ce la faccio a non vedere mio figlio. Non vivere con lui no ha più senso”. Francesco Rosi è in carcere e parla da lì con i periti nominati dal giudice Valerio D’Andria. E’ rinchiuso da quando il 25 novembre ha ucciso a colpi di fucile la moglie Raffaella Presta, avvocato quarantenne. I medici Battista Traverso e David Lazzari insieme ai consulenti di parte sono entrati nella prigione per parlare con lui e per riferire poi al giudice se fosse in grado di intendere e di volere quando ha sparato per due volte, la prima frontalmente e la seconda alle spalle, verso la madre di suo figlio.
“Lei mi provocava”, racconta Rosi ai medici che lo trascrivono nelle carte, ma dice anche “ditemi come ho fatto a diventare un mostro così”. In un continuo rimbalzo tra le proprie colpe e la volontà di spiegare il gesto Rosi secondo gli esperti, all’epoca di quel tremendo crimine “non rappresentava una infermità mentale di tale grado da indurre nel periziando uno stato d’animo in grado di escludere, ovvero scemare grandemente, la sua capacità di intendere e volere”. Sapeva cosa stava facendo dunque Rosi e lo ha fatto con lucida determinazione? Sarà un giudice a stabilirlo, l’udienza per discutere la perizia è fissata al 26 luglio.
L’accusa mossa dal pm Valentina Manuali era stata da subito quella di omicidio premeditato che si basava sulle percosse precedenti il delitto (testimoniate anche da un selfie dell’avvocatessa pugliese inviato a congiunti). Una settimana dopo quello scatto il marito le ha sparato. Usando un’arma da caccia. La doppietta che lasciava molto tempo carica sotto al letto. Circostanza valsa appunto l’aggravante iniziale, poi decaduta. L’uomo si è giustificato dicendo che quel fucile lo teneva vicino a sé, pronto a fare fuoco, per paura dei ladri che avevano provato ad entrare in casa tempo prima. E non perché avesse già in mente di uccidere la moglie.
Se ha sparato, ha affermato nell’interrogatorio dopo l’arresto, è perché ha avuto una specie di “black-out” (che per i periti però non significa che non fosse in grado di comprendere le sue azioni) nel corso dell’ennesima al culmine della quale lei avrebbe detto “quello non è tuo figlio”. E ai periti Rosi ammette di aver picchiato la moglie, in due occasioni appunto “le detti un colpo in fronte ed uno schiaffo”.
Rosi dunque, secondo gli esperti, era capace di intendere e di volere quando uccise la moglie nella villa del Bellocchio, “al momento dei fatti Rosi, si ritiene soffrisse di una patologia psichica inquadrabile in un disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso misti, tendente alla cronicizzazione, patologia che comunque non rappresentava una infermità mentale di tale grado da scemare grandemente la sua capacità di intedere e di volere”, periziano Traverso e Lazzari, ma rimandano però al magistrato affinchè sia lui a valutare la pericolosità sociale dell’arrestato.
E, aggiungono, nelle conclusioni dell’elaborato recentemente depositato che Rosi “soffre attualmente di un disturbo psichiatrico inquadrabile in un episodio depressivo maggiore, senza sintomi psicotici, apparentemente in lento miglioramento, insorto attorno a fine 2015 reattivamente sia alla condizione di carcerazione, sia al forte impatto psicotraumatico sul soggetto della commissione del grave reato omicidiario per il quale è indagato”. E nello stato di sofferenza di Rosi, il pensiero che più di tutti lo afferra e lo tira a fondo (tanto da avergli fatto tentare il suicidio in carcere e averlo costretto ad una sorveglianza h24) è quello del bambino “nessuno me lo avrebbe tolto”.