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Omicidio Presta “delitto annunciato”, Raffaella “se mi uccide non dategli mio figlio”

Raffaella sentiva di essere stata condannata  a morte. Aveva ragione.  Il padre Antonio Presta, ha parlato di “Sentenza di morte già emessa” da parte del marito Francesco Rosi nei confronti della avvocatessa 40enne. Negli atti i giudici parlano di “omicidio annunciato”. Ma è lui, l’agente immobiliare 43enne ad aver sentenziato un mese prima del delitto “l’atto finale”. Lui, che si legge nelle carte, era amante della vita notturna e delle sale da gioco e che nel recente passato “aveva più volte detto alla moglie – scrivono i giudici Narducci, Semeraro e Verola – che egli era disposto ad ammazzarla”, se lei lo avesse lasciato. “Rosi aveva già deciso – scrivono – che se avesse realmente deciso di separarsi l’avrebbe ammazzata”. E’ così, che secondo la ricostruzione degli inquirenti  il 25 novembre 2015, in esito alla discussione nella quale Raffaella avrebbe rinnovato la sua volontà di far cessare il matrimonio, le ha sparato due colpi con un fucile da caccia. Un Beretta 12 solitamente usato per la caccia a i cinghiali.

Un inferno, quello che Raffaella ha vissuto nel suo ultimo mese di vita. Così il quadro restituito dalle carte dell’inchiesta per l’avvocato, madre di un bimbo di sei anni, secondo i togati “testimone diretto del delitto”, picchiata più volte regolarmente dalla metà del 2014, da quando era emersa la sua relazione con un altro uomo. Lo stesso che racconta agli inquirenti di sapere che Rosi “viveva di notte” perchè frequentava sale da giochi e che aveva detto a Raffaella di aver “ingaggiato alcuni investigatori privati (pagati una montagna di soldi)” e che aveva raggiunto la prova certa del tradimento perchè “era entrato in possesso dei messaggi whatsapp suoi e della Presta e di filmati di incontri che avvenivano tra i due amanti”. E che da fine ottobre Raffella aveva maturato la certezza che l’unione con il marito avrebbe avuto un epilogo drammatico. Tanto da lasciare alle amiche una sorta di testamento, di “ultime volontà”, scrivono i giudici, riguardanti il piccolo: “la consapevolezza di poter essere ammazzata era oramai talmente forte”, scrive il Riesame raccontando quel colloquio con le uniche confidenti, per cui Raffaella aveva disposto che, “in caso di morte, il figlio venisse affidato alla sua famiglia di origine”. E dal giorno seguente l’omicidio il piccolo è appunto affidato alle cure della sorella gemella di Raffaella e si è trasferito in Puglia nella città di origine della madre. Lontano da Perugia. Lontano dall’orrore vissuto.

“Non ti intromettere, sennò quello mi ammazza” aveva supplicato  l’amica e collega con cui in parte si confidava. Non diversa la richiesta a un’altra amica (a pochi giorni dal delitto) che si offre di aiutarla dopo averla vista con i lividi sul braccio e avere saputo di pugni in fronte e occhi neri. “Non ti mettere in mezzo, quello fa una strage”. Senza contare quel selfie, indirizzato alle amiche, al fratello e al compagno con il volto livido: “Incidente domestico, diciamo”, la didascalia che lo accompagnava.

“Mio figlio? È la luce dei miei occhi”. Lo ha detto Francesco Rosi ai carabinieri, raccontando che la furia omicida sarebbe nata proprio da una frase di Raffella “non è figlio tuo”, avrebbe detto riferita al bambino che in quel momento era in casa pronto per il bagnetto, e che dopo averle udite, Rosi – per sua stessa ammissione – ha sparato. Ma i giudici non danno fiducia a questa ricostruzione perchè secondo loro la donna aveva ben chiaro che nel pronunciare questa frase avrebbe firmato la sua condanna a morte.

Il Dna del bambino. E anche se nelle stesse parole di Rosi il piccolo è descritto come la cosa più importante della sua vita, sono i suoi legali a presentare, in occasione dell’udienza davanti al Riesame una traccia biologica del bambino per stabilirne la paternità. Documento non accolto dal Riesame: intanto perché “strappato” da “imprecisati” familiari dell’uomo, senza il consenso dal minore, consenso che sarebbe dovuto venire dal padre in “insanabile conflitto di interesse”. Ma poi il punto, chiariscono i giudici, non è stabilire se il piccolo sia “figlio naturale del padre”. Esito che peraltro, qualsiasi fosse,  il Rosi al momento del delitto non poteva conoscere, ma il nodo è  semmai quello di chiarire se Raffaella “abbia pronunciato o meno” quella frase. E quindi Rosi resta in carcere, anche nonostante “gli impulsi suicidari” perché comunque è sorvegliato ininterrottamente dal personale di polizia.