Carlo Ceraso
E’ uno dei misteri giudiziari italiani, liquidato in appena un anno, Cassazione inclusa, pur di assicurare alle patrie galere i responsabili di uno dei casi che sconvolse il Paese: il massacro delle bambine di Ponticelli, Barbara Sellini e Nunzia Munisi, i cui corpicini vennero ritrovati in un canalone della periferia di Napoli, nel rione-dormitorio di Ponticelli. Avevano appena 7 e 10 anni. Ma per la Corte d’Appello di Roma quel processo va rifatto. Perché i responsabili potrebbero essere innocenti e il vero colpevole ancora in libertà. Così dopo 30 anni, 27 dei quali trascorsi in galera, per Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo è tornata a riaccendersi la speranza. Da trenta anni continuano a urlare la loro innocenza, a combattere contro una sentenza passata in giudicato che sembra far acqua da tutte e parti. A difenderli, fra gli altri, c’è anche Ferdinando Imposimato, l’ex magistrato impegnato in prima linea su alcune delle inchieste più scottanti (fu giudice istruttore per l’omicidio Moro, l’attentato a Papa Giovanni Paolo II e l’omicidio Bachelet) e che da anni si batte per l’innocenza dei tre ragazzi di Ponticelli.
Anche per lui il dispositivo dei giudici di Roma, che hanno fissato la prima udienza per il 16 maggio prossimo, è una prima vittoria. Di quei tre ragazzi non c’è più traccia: oggi sono uomini, padri di famiglia, lavoratori che hanno saldato il loro debito con la giustizia e cominciato una nuova vita. A Spoleto, nella stessa città che per tanto tempo li ha visti reclusi nel supercarcere di Maiano. “Non sono mai incappati in uno scivolone, mantenendo sempre un comportamento ineccepibile”, dice a Tuttoggi.info un investigatore.
Al servizio di disabili e anziani – dal giugno 2010 sono tornati definitivamente in libertà. Qualche mese prima tutti e tre erano stati affidati ai servizi della Croce Verde di Spoleto, l’associazione di pubblica assistenza del presidente Loreto Laureti impegnata anche sul fronte della protezione civile. “Indipendentemente da quello che è stato il loro ‘ieri’ – ci dice presso gli uffici della Croce Verde – da quando sono con noi sono sempre stati disponibili, puntuali nello svolgere le loro mansioni dimostrando una partecipazione e sensibilità alle nostre iniziative a dir poco da elogiare”. Tutti i sabati raggiungono la sede della C.V. e salgono a bordo dei minibus. La Rocca si occupa del trasporto dei disabili, Imperante e Schiavo di quello degli anziani. “Tanti passano da noi – aggiunge Feliciano Degli Esposti, fra i fondatori della Benemerita onlus – ma in genere, terminato il periodo di affidamento, se ne vanno. Loro invece sono rimasti e rappresentano per noi una importante risorsa. Non voglio entrare nel merito delle sentenze, ma se fosse vera la loro innocenza sarebbe assurdo, pazzesco”.
La sentenza da riscrivere – è il 3 luglio 1983 quando i corpi di Barbara e Nunzia vengono ritrovati, legati assieme e in parte carbonizzati, nel fosso di via Argine. Erano scomparse da casa il giorno prima. Due mesi più tardi vengono fermati i tre giovani e il fratello di Giuseppe, Salvatore La Rocca che avrebbe aiutato il gruppo a occultare i cadaveri. Per due anni e mezzo non succede nulla, fino ai primi del 1986 quando scadono i termini della custodia cautelare e i tre vengono inviati al soggiorno obbligato in tre paesini del salernitano. Dove rischiano anche il linciaggio: per inquirenti, media e opinione pubblica sono loro i responsabili. Il provvedimento viene così ritirato e i ragazzi spediti presso alcuni rispettivi parenti. Il 17 marzo comincia il processo di primo grado che si conclude, a tempo di record, venticinque giorni dopo: tre ergastoli ai presunti colpevoli, appena 5 anni a Salvatore per l’occultamento dei corpicini. L’accusa è composta dai pm Arcibaldo Miller (recentemente interessato dall’inchiesta “P3”) e Giuseppe Vignola. Non c’è molto nelle carte processuali: non c’è l’arma del delitto, non c’è il movente. L’accusa si basa su un paio di testimonianze (una poi ritrattata, l’altra considerata inattendibile dai legali della difesa). I tre giovani sono tutti incensurati, fidanzati, di quartieri diversi di Napoli. Ma la giustizia deve far presto. La mamma di Barbara ha scritto al Capo dello Stato per spronare le istituzioni. Sette mesi dopo, è il 9 ottobre 1986, arriva anche la sentenza d’appello che conferma gli ergastoli ma riduce ulteriormente la condanna inflitta a Salvatore La Rocca (3 anni). Appena otto mesi e anche le sezioni unite della Cassazione, respingendo i ricorsi, confermano il verdetto. Passano gli anni ma ogni richiesta di revisione, nonostante nuove testimonianze e perizie portate avanti dal collegio difensivo che ha assoldato un pool di esperti, cade nel vuoto. Fino a ieri l’altro quando i giudici di Roma hanno accolto la richiesta di Imposimato e degli avvocati di Firenze Eraldo e Francesco Stefani. 1.400 pagine che smonterebbero pezzo a pezzo la sentenza. Ricollocando, senza paura di smentita, la morte delle due piccole alla mezzanotte di quel maledetto 2 luglio anziché alle 20.
“Serviva il mostro” – inutile parlare con i protagonisti di questa vicenda. Ciro, Giuseppe e Luigi hanno ricevuto l’ordine dei legali di non rilasciare alcuna dichiarazione alla stampa. Parla invece Giuliana Covella, giornalista de Il Mattino e autrice del libro “L’uomo nero ha gli occhi azzurri” dedicato alla tragedia di Barbara e Nunzia. All’epoca dei fatti era quasi coetanea delle due sventurate bimbe. La passione per il giornalismo d’inchiesta l’ha portata a studiare tutti gli atti del processo, a parlare con tutti i protagonisti della vicenda. “Dalle carte emerge evidentemente che il processo, nei suoi tre gradi di giudizio, è stato condotto molto frettolosamente, per chiudere presto il caso, per sbattere il mostro in prima pagina. Non posso esprimere un giudizio, io faccio un altro lavoro, ma mi sembra evidente che si doveva cercare altrove, trovare indizi, prove e riscontri che non sono mai stati trovati”. Nel suo libro, allegato alla richiesta di revisione del processo, emerge anche un personaggio sentito dagli inquirenti nei giorni successivi al ritrovamento dei corpi delle due sventurate piccole: “fu ascoltato un uomo che ammise di essere dedito all’alcool e di adescare minori. Anche lui aveva una Fiat 500, la stessa vettura su cui furono viste per l’ultima volta salire Barbara e Nunzia”. Per la cronaca, l’utilitaria venne rottamata pochi giorni dopo.
© Riproduzione riservata