L’Umbria, come ormai nessun altro territorio, non può ritenersi immune dalla minaccia del terrorismo. Eppure attorno al cuore verde d’Italia è come se fosse tracciato un ‘confine’, di prevenzione e sensibilità, che rende questa regione ben più sicura rispetto ad altre zone del centro e del nord Italia. A dirlo è il procuratore antimafia antiterrorismo, Franco Roberti, a margine della firma del Protocollo organizzativo in materia di indagini contro il terrorismo con il Procuratore generale della Repubblica, Fausto Cardella, tenutasi questa mattina nel Palazzo di Giustizia di piazza Matteotti.
La ferita dell’ultimo attacco terroristico all’aeroporto Ataturk di Istanbul è ancora aperta, così come lo è quella che ha dilaniato il cuore di Parigi e Bruxelles. Una ferita sulla quale però le forze dell’ordine italiane, con la cooperazione dei reparti speciali, vigilano come anticorpi. E se la paura, imprevedibile come le bombe degli attacchi, in questi casi non giova e rende più vulnerabili, allo stesso modo è l’impegno dello Stato a intensificarsi, dotandosi di figure professionali che viaggiano nel mondo del web per combattere la piaga ‘liquida’ del terrorismo.
L’Umbria evoca facilmente il ricordo della moschea di Ponte Felcino, luogo divenuto “una scuola di terrorismo“, nelle parole riferite all’epoca delle indagini sull’associazione “Ibn Khaldoun” dal direttore dell’Ucigos Carlo de Stefano. Una regione ‘di passaggio’, che conta tante presenze straniere anche grazie ai poli universitari multiculturali esistenti a Perugia. Eppure il procuratore Roberti questa mattina ha tenuto a precisare di non credere che, nonostante tali scambi frequenti, “l’Umbria possa essere individuata come territorio idoneo. C’è un’attenzione investigativa notevole anche su questo territorio e su tutto il paese. L’Italia nella sua complessità non è un paese idoneo a nascondersi, tant’è che abbiamo casi di soggetti che lasciano il nostro paese, migrano nel nord Europa, anche in Germania o altrove, perché sentono la pressione investigativa qui da noi. Non farei un discorso circoscritto all’Umbria. Piuttosto lo estenderei al sistema paese: in Italia non è aria per i terroristi“.
Naturalmente il sistema “non è garantito al 100%, perché il rischio attentati c’è sempre“, tiene a precisare Roberti. Il sistema di monitoraggio si è però rivelato efficace: la nuova legge (datata 15 aprile 2015) per l’antiterrorismo racchiude al suo interno norme specifiche sui foreign fighters, sulla possibilità di agire, da parte degli inquirenti, sulla proprietà personale e patrimoniale dei soggetti ritenuti a rischio terrorismo, sull’utilizzo del web per scopi terroristici con la creazione di una black list di siti a rischio, così come sulla possibilità di effettuare intercettazioni telefoniche preventive e la a possibilità per i servizi di informazione e sicurezza di effettuare colloqui investigativi con detenuti per prevenire delitti con finalità terroristica di matrice internazionale. Completa il quadro lo strumento amministrativo delle espulsioni, alternativo a quello penale. “Non basta il sospetto“. Perché a intervenire di fronte alla minaccia del terrorismo è l’applicazione del diritto e delle garanzie del diritto. Serve così l’indizio per procedere penalmente e per poter ritenere il soggetto pericoloso. “Il mero sospetto, seppur consistente, può dare adito all’espulsione“.
Foreign fighters e cellule terroristiche – Esiste però un altro flusso: militanti che dall’Europa raggiungono luoghi al confine tra Turchia, Siria e Iraq, battendo le rotte più disparate, sfruttando anche quelle turistiche e commerciali. Lì vengono addestrati, si arruolano nel sedicente Stato islamico. Poi tornano in Europa, grazie a passaporti occidentali. Un flusso che recentemente ha raggiunto livelli mai visti, “che si muove attraverso i confini di paesi dove il controllo è più debole“, con il tentativo di fuggire dalla pressione investigativa. “Il problema naturalmente – ha detto il procuratore Roberti ai giornalisti – riguarda anche l’aspetto internazionale. Se alcuni paesi si comportano in maniera rigorosa e altri paesi sono meno sensibili a tali dinamiche, è chiaro che il flusso si indirizza laddove c’è meno pressione. Bisognerebbe che tutti i paesi adottassero le stesse norme e la stessa giurisdizione. A tal proposito, noi italiani abbiamo l’esperienza del contrasto alle mafie, che mettiamo a disposizione degli altri paesi per dialogare e scambiare informazioni“. Il riferimento è anche all’Umbria, in particolare dopo l’avviamento dell’operazione ‘Quarto passo’ o la recente indagine a seguito di una tentata estorsione ad un notaio. Episodi che hanno dato conto di un territorio in continua evoluzione, anche per la presenza e il radicamento delle associazioni criminali di stampo mafioso.
Il Trattato di Lisbona a riguardo prevede già l’istituzione di una Procura europea, che vigila in particolare sui reati in materia finanziaria. In base alla legge, il procuratore europeo può estendere la sua competenza anche per ciò che riguarda il terrorismo, con l’accordo di tutti i paesi. ‘La lacuna’ sta nel fatto che non tutte le nazioni dell’Unione parlano la stessa lingua e hanno le stesse leggi. Resta il modello giurisdizionale al centro del dibattito internazionale, esistente già da circa 20 anni, e si stenta a costituire la figura di un procuratore con competenze specifiche ed effettive. Non basta neppure l’azione degli organismi di coordinamento europeo che già esistono, come Europol (coordinamento poliziesco), Eurojust (coordinamento giudiziario) e Olaf (coordinamento per reati finanziari). “L’accavallarsi di nuove competenze in capo a nuovi istituti non ha giovato alla giurisdizione stessa“, ha precisato Roberti.
“La situazione migliora” – Ciò che è possibile notare dagli ultimi fatti di cronaca è che gli attacchi terroristici sono legati alla situazione politica militare dello Stato Islamico, che sta subendo battute d’arresto importanti nei territori che occupa. “Questo ha prodotto secondo noi anche un’intensificazione degli attacchi terroristici“.
Il timore degli sbarchi – “Escluderei che i terroristi arrivino con i flussi migratori. Possono arrivare soggetti che poi si radicalizzano nel territorio europeo e che avviano un percorso prima di andare a combattere la Jihad o ancora a coltivare progetti di attentati in Europa“. Con il recente attentato a Istanbul, si apre poi una ‘nuova’ pista terroristica, quella caucasica, comunque legata allo Stato islamico: “il fenomeno è così in rapida evoluzione che ci pone di fronte a nuove sfide e nuove ipotesi, può nascondere anse e minacce in territori e ambienti ancora non battuti. Ecco che è necessario adeguare il sistema normativo. C’è in analisi al Parlamento un disegno di legge che arricchisce il quadro normativo di nuove ipotesi di reato, come quella del terrorismo nucleare, non ancora previsto nel nostro ordinamento“.
Fondamentale per la lotta al terrorismo è l’impegno economico da parte dello Stato, che garantisca la formazione di professionalità a livello anche informatico e di polizia postale, che agiscano a 360 gradi grazie alle indagini. “Il terrorismo ormai si muove attraverso le transazioni finanziare, viaggia con i bitcoin in rete. Non è una lotta che si fa a costo zero“.
Una lotta che deve sempre più intercettare il radicalismo che si veste di islamismo. Siamo di fronte a “spinte alla violenza che si vestono in qualche modo di ideologia religiosa. Non credo esista un Islam radicale. Il problema del terrorismo è l’islamizzazione della radicalità, e con essa la spinta al nichilismo tipica delle posizioni radicali che si sono islamizzate“.
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